La firma in calce è autorevole: quella dell’International committee of medical journal editors (Icmje), il network delle principali riviste mediche a livello mondiale. Il canale di diffusione, inevitabilmente, eterogeneo.
“Cosa possiamo fare per proteggere le prede dalle riviste predatorie?”, è il titolo di un commento pubblicato in contemporanea su oltre dieci tra i principali player dell’editoria medico-scientifica a livello globale: dal British medical journal a The Lancet, dal New england journal of medicine al Journal of the american medical association, da Nature medicine al Bulletin dell’Organizzazione mondiale della sanità.
In calce, la firma di tutti gli editor, preoccupati dal dilagare di competitor che pressano gli scienziati affinché pubblichino sulle proprie pagine. Dietro un corrispettivo economico, garantiscono tempi di revisione brevissimi, un controllo a maglie larghe sia sui conflitti di interesse sia sulla veridicità dei dati riportati (peer-review).
Una tentazione soprattutto per i ricercatori con una posizione non ancora consolidata, sotto pressione per acquisire autonomia e scalare posizioni nelle rispettive istituzioni.
Oltre 15 mila le riviste predatorie censite (fino al 2021)
La loro presenza è impossibile da quantificare, nel dettaglio. Secondo un report stilato da Cabells nel 2021, le riviste predatorie sarebbero oltre quindicimila. Un dato con ogni probabilità divenuto più robusto nell’arco dell’ultimo triennio, che dà l’idea di un problema rilevante, soprattutto in ragione della sua diffusione.
Nonostante le raccomandazioni dell’Icmje a non cercare spazi su di esse, l’atteggiamento sempre più aggressivo delle riviste predatorie e la necessità per i ricercatori di aggiornare costantemente il numero delle loro pubblicazioni non sta sottraendo ossigeno a questo mercato. Tutt’altro. Da qui la necessità avvertita da quelle che possono essere considerate le riviste più autorevoli – considerando diversi indicatori bibliometrici, a partire dall’impact factor – di lanciare un messaggio a canali unificati all’inizio dell’anno.
Una sorta di spartiacque, con l’auspicio che il 2025 possa rappresentare il punto di partenza del contrasto a questo fenomeno, le cui ripercussioni sono molteplici: dalla perdita di qualità degli studi alle inique progressioni di carriera, dal ridotto progresso scientifico alle inevitabili ricadute nella pratica clinica.
Quando sospettare di essere di fronte a una rivista predatoria?
Nell’articolo – oltre alle riviste citate, a pubblicarlo sono stati l’Annals of internal medicine, Deutsches Ärzteblatt, il Journal of korean medical science, La Tunisie médicale e Medwave: mentre uscirà sui prossimi numeri di Plos Medicine, del The National medical journal of India e del New Zealand medical journal – gli editor hanno per prima cosa riassunto i tratti distintivi di un predatory journal.
Ovvero: dall’uso di nomi di riviste e di un’immagine del brand simile a quella di riviste affermate alle dichiarazioni (false) di adeguamento alle raccomandazioni più autorevoli in materia di editoria scientifica, dall’indicazione di metriche di indicizzazione false all’inserimento di esponenti autorevoli della comunità scientifica nel proprio comitato editoriale (spesso a insaputa degli stessi).
“Pratiche ingannevoli”, secondo gli editor, che “mettono in pericolo autori, istituzioni accademiche, riviste ed editori”. Oltre, più in generale, a minacciare l’identità stessa della ricerca scientifica, il normale iter di diffusione dei suoi risultati e il pubblico.
Pubblicare su un predatory journal: quali conseguenze per la ricerca scientifica?
“Le riviste predatorie possono facilitare la diffusione di informazioni sanitarie non verificate, deboli o persino fraudolente”, avvertono inoltre gli esperti, riprendendo le conclusioni di un lungo lavoro tra esperti, pubblicato nel 2019 su Nature.
Ampio è il ventaglio delle possibili conseguenze. Nell’analisi, viene ricordato che “la pubblicazione su una rivista predatoria può comportare conseguenze finanziarie e professionali che interferiscono con la capacità di pubblicare lavori su riviste invece legittime”.
Oltre che per il singolo ricercatore, la pratica risulta “dannosa anche per la credibilità delle istituzioni che ospitano chi pubblica su un predatory journal”. Senza trascurare che il diffondersi di questa prassi “rende alcuni accademici e le loro istituzioni diffidenti nei confronti delle regolari riviste open-access”.
Per dare forza al proprio messaggio, gli editori non si sono limitati a scattare un’istantanea del fenomeno e delle sue conseguenze. Nell’articolo sono infatti elencati anche consigli diversi a seconda del target – autori, istituzioni, enti finanziatori, riviste legittime – per far fronte a un’insidia considerata sempre più urgente dai diversi attori.
Consigli ai ricercatori per non pubblicare sulle riviste predatorie
Quanto ai ricercatori, chiamati a “essere consapevoli dell’esistenza delle riviste predatorie ed evitare di inviare qualsiasi articolo a una di esse”, un supporto più giungere dai colleghi più esperti e dai bibliotecari: figure spesso in possesso degli anticorpi utili a riconoscere una rivista predatoria. L’assenza di un censimento ufficiale – difficile da realizzare, dal momento che molte di queste entità si affacciano sul mercato e scompaiono spesso nell’arco di pochi mesi: un aspetto che rende difficile anche il completamento di un’azione legale nei loro confronti – non è di aiuto in questo senso.
Ma si può agire al contrario. Riconoscendo cioè le riviste autorevoli, sulla base degli indicatori più diffusi e di una serie di tool messi a disposizione per esempio dalla World association of medical editors (Wame), dal National institute of health (Nih) e dal sito ThinkCheckSubmit.org. “Se permangono dei dubbi – aggiungono gli esperti – andrebbero condivisi con i colleghi e le loro istituzioni”.
Altri consigli utili riguardano l’attenzione da porre alle richieste che giungono da queste riviste, agli indirizzi email e alle Url incluse nelle comunicazioni (“Per evitare di confonderle con i riferimenti di riviste più autorevoli”). Efficace è anche la comunicazione con le riviste copiate, così da “avvisare chi svolge il proprio ruolo correttamente che qualcuno sta provando a imitarlo”.
Riviste predatorie: come può difendersi chi sostiene la ricerca?
Capitolo istituzioni ed enti finanziatori della ricerca. A loro gli esperti raccomandano di dare “massima visibilità agli strumenti citati” per aiutare i propri ricercatori a riconoscere le riviste predatorie, di “fare formazione a riguardo” e di “verificare regolarmente su quali riviste vengano pubblicati generati dalla ricerca portata avanti nei rispettivi laboratori”.
Ai bibliotecari spetta il compito di “avvisare la propria istituzione, i ricercatori e la rivista imitata nel momento in cui vengano nutrano dubbi circa la legittimità di una sospetta rivista predatoria”.
Anche le riviste legittime in campo per ridimensionare quelle predatorie
Quanto alle riviste scientifiche, gli strumenti che hanno per proteggersi dall’editoria predatoria rimandano a una chiarezza informativa nei confronti dei propri interlocutori circa i possibili rischi di adescamento da parte delle stesse.
“Se i redattori e gli editori vengono a conoscenza di un’entità predatoria che li sta imitando, dovrebbero prendere in considerazione l’idea di avvisare la loro comunità di autori pubblicando un messaggio sul sito o inviando una comunicazione via email ad autori, revisori e membri del comitato editoriale”, è il consiglio degli estensori del documento, che aggiungono: “I redattori dovrebbero riconoscere che gli autori possono citare articoli pubblicati su riviste predatorie”, con riferimento alle bibliografie.
In presenza di un dubbio di questo tipo, “dovrebbero avvisare gli autori” per una verifica della legittimità dei dati portati a supporto del proprio lavoro.
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