Il lavoro a Napoli: povero, insicuro, avido

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Ho letto con grande attenzione il libro di Repubblica “NapoliLavoro”, meritoriamente promosso dalla Cgil e pubblicato alla fine del 2024. È un libro di grande interesse, con analisi ricche e articolate, dal quale emerge con chiarezza lo scenario complessivo napoletano, ma anche regionale, in cui collocare la fotografia di un mercato del lavoro ancora in grande sofferenza e rispetto al quale è importante chiedersi cosa di nuovo si può fare nel 2025. Nel volume risalta in verità qualche lacuna riguardante importanti profili istituzionali (i servizi per l’impiego, ad esempio) o settoriali. Ma queste lacune sono ampiamente compensate da molti qualificati interventi che riguardano tante eccellenze nella manifattura o nel terziario, coraggiose proposte (segnalo in particolare quelle di Adriano Giannola sullo sviluppo delle risorse energetiche alternative o di Costanzo Jannotti Pecci sulle prospettive di modernizzazione del tessuto industriale) o accurate analisi dell’occupazione nella città di Napoli (si veda il primo rapporto dell’Osservatorio economia e società Napoli). Vorrei qui fare qualche riflessione partendo proprio da queste ultime analisi, considerando che si tratta di un approfondimento della condizione lavorativa nella terza città italiana più popolosa nonché capitale del Mezzogiorno. Non dunque un mercato del lavoro qualsiasi, ma una cartina di tornasole fondamentale per saggiare l’efficacia delle politiche del lavoro nazionali e regionali.

Comincerei dal dire subito che i dati utilizzati sono del 2022/2023: quindi servono relativamente a farci capire l’efficacia dell’azione del Governo centrale in carica, ma molto per l’azione dei governi nazionali e regionali del periodo 2015/2022, ivi compreso quanto si è fatto per uscire dalla crisi pandemica (pur scontando l’innestarsi su di essa delle conseguenze della crisi legata al conflitto in Ucraina). Di riflesso però da questi dati emerge ciò che il Governo Meloni non dovrebbe fare. Inutile comunque sommergere il lettore di dati.

Quelli che mi hanno colpito sono i seguenti:

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a) a Napoli lavorano solo 4 persone su dieci contro i 7 di Bologna (pur essendo la situazione leggermente migliorata rispetto al 2018) e gli occupati complessivi sono 255.000 su poco più di 900.000 residenti (molti giovani emigrano, molti si scoraggiano e non offrono neanche il proprio lavoro);

b) le donne però lavorano in un numero molto inferiore (solo 3 su 10), probabilmente anche perché non sanno a chi lasciare i figli data la forte carenza di servizi per le famiglie (si legga l’articolo di Daniela Palumbo);

c) resta molto diffuso il lavoro nero; d) infortuni e morti sul lavoro sono alti come nel resto d’Italia se non peggio;

e) le imprese, solo 50% industriali, hanno nella stragrande maggioranza (95%) meno di dieci dipendenti, anche se fanno profitti crescenti come nel resto d’Italia (+45% dal 2019 al 2022);

f) un lavoratore su quattro lavora nella pubblica amministrazione, settore in cui le retribuzioni ristagnano almeno da un decennio; g) i laureati sono ancora pochi, molto meno che nel resto d’Italia (con eccezione della pubblica amministrazione).

A questi dati sull’occupazione vanno aggiunti quelli sui redditi: a Napoli il reddito medio è molto più basso rispetto alla media nazionale e assai diversificato per quartieri, consentendo di localizzare con una certa precisione nelle varie municipalità ricchezza e povertà. Volendo fare una sintesi non si sbaglia dicendo che il mercato del lavoro napoletano è un fedele specchio delle principali debolezze di quello nazionale: il lavoro, oltre ad essere ancora scarso, è povero, nero (o grigio, comunque ancora molto stagnante nell’illegalità), insicuro e – tratto forse più importante di tutti – avido (cioè, semplificando gli studi del premio Nobel Claudia Goldin, condiziona e invade le vite individuali e quelle collettive). Proprio povertà e illegalità delle condizioni lavorative rendono il lavoro dei napoletani più avido perché per sbarcare il lunario o raggiungere gli standard della società dei consumi bisogna lavorare (male) e guadagnare (spesso poco) più che altrove, trascurando altri equilibri vitali e relegando ancora le donne nei lavori di cura, anche se spesso con la collaborazione di immigrate compensate in nero. In un perverso circolo vizioso, il lavoro avido accentua perciò i tratti patriarcali, arretrati e talora violenti delle nostre relazioni sociali. Dai dati prima citati emerge anche che a Napoli la forza lavoro potenziale è un po’ più giovane che altrove e che si potrebbe migliorare la condizione occupazionale grazie alla digitalizzazione delle principali attività potenziata dall’intelligenza artificiale. Attenzione però: non bisogna illudersi che ciò possa accadere grazie alle dinamiche spontanee del mercato, proprio perché, da un lato, a Napoli il lavoro povero e nero si alimenta del lavoro dei giovani (più numerosi) e, dall’altro, digitalizzazione e intelligenza artificiale non combattono da sole il lavoro avido (dipende molto dai contesti organizzativi e dalle culture gestionali). In questo scenario quali indicazioni per il futuro?

Una generale: le politiche degli anni passati, riprese da Giorgia Meloni – basate su flessibilità legislative, indebolimento della contrattazione collettiva, fiducia nell’azione spontanea del mercato – non hanno avuto effetti significativi su un mercato emblematico come quello napoletano. Perseverare è dunque diabolico. Povertà e lavoro nero richiedono politiche nazionali e regionali più incisive e mirate, unite a capacità di governo generale nonché azioni amministrative più specifiche ed energiche. L’insicurezza sul lavoro si combatte invece con un più penetrante e capillare controllo del territorio, dove devono cooperare tante istituzioni. Quanto al lavoro avido – scontata la necessità di una forte convergenza tra istituzioni e forze sociali – molto possono fare le amministrazioni locali potenziando i servizi alle famiglie, ma anche innovandoli, promuovendo ad esempio esperienze di cohousing ovvero dei “condomini sociali” e favorendo in ogni modo l’accesso al lavoro di qualità (o almeno non avido) da parte delle donne. Se solo si equiparasse il tasso di attività per genere, il lavoro dei napoletani migliorerebbe molto per quantità (+10%) e qualità. Quello che non bisogna assolutamente fare è tagliare i bilanci per queste politiche né affondare le amministrazioni locali nei contrasti personali o nelle contrapposizioni politiche strumentali. Piuttosto vanno affilate, anche da parte dei cittadini e dei partiti (specie se all’opposizione), tutte le (poche) armi a disposizione (utilissimo perciò l’Osservatorio comunale cui ha dato voce Repubblica) per valutare almeno ogni anno se la strada seguita è quella giusta.



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