Volontà di potenza, all’opposto – controinformazione.info

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di Lorenzo Merlo

Se chiedi al pesce: “Com’è l’acqua oggi?” Ti guarda stranito, pensando: “L’acqua? Quale acqua?”
Piccole note per un uomo compiuto. Oppure, guardarsi intorno.

Secondo Nietzsche ciò che chiama volontà di potenza sarebbe il primo punto identitario dell’uomo consapevole di se stesso e di ciò che ci impaccia nella mota del moralismo, delle ideologie, del vittimismo, dell’egocentricità. Un uomo che, nel gergo del filosofo tedesco è detto übermensch, in italiano oltre uomo.

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Diversamente dalle convinzioni della vulgata progressista, volontà di potenza non implica alcuna disponibilità, né predilezione, alla sopraffazione. Pura demagogia di colui al quale è inutile chiedere com’è l’acqua?

Oltre quale uomo? Oltre quello tendenzialmente ordinario e più comune che non ha, o non ha ancora avuto, la consapevolezza della dimensione effimera della realtà. Nietzsche ha un nome anche per questa figura che tutti conosciamo, che tutti siamo o siamo stati e ritorneremo ad esserla. La chiama piccolo uomo, che impersonifica l’opposto della volontà di potenza (*).

Il fondamento del piccolo uomo si esaurisce nella secolarità e così, anche la sua energia viene consumata ed esaurita secondo criteri che potremmo dire d’interesse personale, secondo un raggio d’azione vincolato dalla lunghina della sua morale, che allunga o accorcia come il domatore col puledro.

Il piccolo uomo è così ortodossamente strutturato che difficilmente riesce a sfuggire a se stesso. Non sospetta, infatti, il suo potere magico di realizzazione, immaginazione, visione e creatività. Crede che tutto stia nei suoi saperi cognitivi. Pensa che un approccio scientifico sia la sola modalità per essere e trovare il vero, dipanandolo dalla messe di facezie ciarlatane – così le chiama – ovvero da tutto quanto non è in grado di riconoscere significato e energia. Il piccolo uomo se ne vanta, costringendo e comprimendo l’intera realtà vera – così la chiama – entro le sue tesserine logiche.

La sua esistenza segue necessariamente linee di sviluppo ed evoluzione incardinate alle logiche amministrative-replicative che ha appreso, venendo al mondo per poi, con il suo borioso esempio, perpetuarle nella sua cerchia di relazioni, come fossero il bene per il mondo.

Vive nella sofferenza in quanto inetto a riconoscere le cause della sua condizione, che cerca di alleviare con sintomatiche medicine allopatiche. Sofferenza che considera sua propria, solo perché la vive in sé, e perché non sarà mai un Cristo, per riconoscere in essa quella del mondo intero e così alleviarla o eluderla. Una sofferenza la cui prima linea ha frequentemente l’aspetto della cupidigia, dell’avidità, della superbia, dell’acrimonia che, invece, gestisce a ossequi, a gomitate e a bugie, ma di cui si ritiene soddisfatto quando lo portano a superare e a umiliare il prossimo. Tre dei sette vizi capitali che, insieme, costituiscono il recinto entro il quale scaturisce il suo immaginario, formula i suoi pensieri e realizza le sue azioni, altruistiche e benemerite incluse.

Senza la prospettiva del palcoscenico e degli applausi, al pari del tossicomane che non è mai privo della bustina, non si muove. Quando le vicende lo fanno scendere a terra e la claque tace, passa alla modalità vittimismo come fosse il più elementare, banale e dovuto diritto e dovere. Lo fa come fosse ovvio, senza sospettare che la vita dell’ovvio è la morte della conoscenza. Da qui, da questo pensiero debole che lo contraddistingue, si sente – ovviamente – anche in diritto di sentirsi offeso se, quanto rivolto a lui, non gli aggrada, se proviene da un ordine del mondo differente dal suo, del quale – ovviamente – si sente superiore.

Il piccolo uomo non pensa alla sua debolezza, alla sua interpretazione, all’investimento della realtà che compie con i suoi valori, per riconoscere le cause della sua sofferenza. Preferisce dedicarsi anima e corpo a riconoscerla nella presunta forza dell’altro. Va da sé perciò che nel dolore si dedichi ad accusare, non a cercare quale sua interpretazione della realtà glielo abbia procurato. Pare incredibile, ma sembra che l’emancipazione dalla propria vulnerabilità, non sia affar suo, che ci sia sempre qualcuno che debba assisterlo nella sua debolezza (e così mantenergliela).

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La trasmutazione di tutti i valori è una formula che Nietzsche impiega per alludere alla necessarietà delle consapevolezze opportune per intendere e realizzare la natura dell’oltre uomo; per dire che l’esperienza non è trasmissibile, cioè che ricreare è necessario. Sulla trasmutazione il piccolo uomo sa solo dire che si tratta di un’utopia. Un’espressione che, peraltro, gli piace ripetere ogni qualvolta qualcosa di estraneo al suo binario gli si para davanti. E ci crede, non sospetta che ogni utopia corrisponda semplicemente al non ancora creato in se stessi, all’idea non estratta dall’iperuranio che tutto di noi e del mondo contiene e, per questo, sodale all’eterno ritorno. Non sa che anche un tavolo è un’utopia finché non ne ha avuto la visione.

Il piccolo uomo è pronto a colpire chi esce dal suo seminato di regolette autoreferenziali. Sembra sia il suo primo comandamento.
E sembra sia nel suo dna nascondere la mano a tutti i costi, dietro leggi, pagando avvocati e corrompendo giudici se nelle sue facoltà.
Così, passo dopo passo siamo all’oggi dove la permeabilità ha sostituito la rettitudine, dove ha perfino inventato un lessico travestito da ciò che lui considera progresso.
La maggioranza dei piccoli uomini ci narra il mondo a sua immagine e somiglianza, ci dice cosa vale, cosa pensare, cosa fare.

Il piccolo uomo consuma la vita aprendo e richiudendo porte morali, nascondendo le proprie contraddizioni, dedicandosi ad arraffare per gioire il tempo di un cerino infiammato, che vede come una pira di soddisfazione.

Tra le molteplici contestualizzazioni in cui il piccolo uomo esprime la sua natura, vi è quella in cui dimostra l’inettitudine a vedere i limiti della conoscenza logico-razionale, dell’inadeguatezza del piatto meccanicismo con il quale si arroga il primato di poter e saper descrivere il mondo e, soprattutto, di estrarne le verità.

Il piccolo uomo non sa che deridere le modalità di conoscenza a lui ignote, ovvero tutte quelle che non sono comprimibili nella sua scatoletta logico-razionale. Quella in cui la dimensione estetica viene piallata fino ad essere limitata alla sola questione del bello. Questione peraltro ben più profonda rispetto al foglio sottile e vanesio, superficiale e edonista, lenzuolo mortuario con il quale, a cuor leggero, la riduce, coprendo così l’infinito potere della conoscenza contemplativo-estetica.

Qualunque sia l’osservazione del piccolo uomo, essa è sempre egocentrica e, qualunque sia la sua prospettiva, egli guarda il mondo sempre attraverso la lente cavernicola con la quale scambia le ombre per verità. Lo fa con determinazione e con un accanimento tale che considera erudizione e specializzazione, razionalità e scienza, tecnologia e logica i pilastri della conoscenza. Nei confronti dei quali, ogni critica lo irrita fino a sopprimerla con la forza, pur di difendere i suoi dogmi, ignari a lui stesso, come l’acqua per il pesce.

Così procedendo, non ha possibilità di volontà di potenza, cioè di vedere in sé, di vedere che la conoscenza cognitiva, in forma di dati da trattenere è un determinante diversivo alla conoscenza evolutiva, e che questa è già in noi.

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Per questa scoliotica condizione non può riconoscere il percorso della sua fortuna e della sua sfortuna, del suo benessere e della sua malattia. Non sospetta, infatti, che la responsabilità di qualunque sentimento lo attraversi, di qualunque fatto (lui crede davvero esistano i fatti indipendentemente da noi) lo investa, non può che essere sua. L’assunzione della responsabilità di tutto, quale elemento nodale della volontà di potenza, non solo gli è estranea, ma con i suoi rozzi strumenti crede di poterla dividere in percentuali tra le parti e così, di potersi sottrarre a ciò che invece lo guarirebbe.

E neppure può vedere l’identicità di tutti noi, tantomeno riconoscere l’attendibilità dell’eterno ritorno dell’identico. Altra formula nietzschiana che allude alla storia come ruota in cui, in qualunque luogo e tempo, tutti stiamo ripetendo pedestremente quanto hanno già affermato tutti i piccoli uomini del passato e che affermeranno nel futuro. Una distinzione temporale, sostanzialmente senza valore emancipativo al fine di una evoluzione verso il superamento di se stessi. Ovvero verso quello stato in cui il nostro miglior potere si compie, portandoci a un immaginario foriero di relazioni, politiche, educazioni e società – in cui la democrazia potrebbe esistere solo a teatro – però più giuste e capaci di offrire una vita piena di significato, invece che di paure e alienazioni.

Vedere corto gli compete, è la sua prima dote. È la prima espressione della sua psicologia eretta su un’incastellatura di dati, con i quali ha costruito la sua garitta per ergersi sopra chi ne dispone di meno. Non è per altro che davanti al concetto, ancora nietzschiano, della morte di Dio, il suo fraintendimento sia madornale. Egli crede infatti che il pensatore tedesco sia il responsabile dell’avvento del nichilismo oggi pervadente. Ma la questione sta in tutt’altro termine, opposto, direi. Il dio morto di Nietzsche è quello creduto esterno a noi. Non è un ente da noi separato. Non è, quindi, l’auspicato avvento dell’uomo compiuto il sicario dell’ente supremo, infatti Dio, cioè, la nostra ultima e prima salvazione, la nostra sola, autentica possibilità di annichilire l’inferno secolare, è ucciso dal piccolo uomo a matrice illuminista, che ha sviluppato un’esistenza assolutamente antropocentrica, con la quale ha tentato in tutti i modi di mettere in ridicolo quanto le sue maldestre pinze non riuscivano ad afferrare. Risiede quindi nel suo comportamento proto-onnipotente, nella sua filosofia analitica, nel mito della scienza, la morte di Dio. Nella sua convinzione di essere padrone di sé. Risiede, perciò, in se stesso la voragine nichilista nella quale stiamo precipitando.

Quando Dio è morto, sono venuti meno tutti quei valori che hanno generato e cresciuto il piccolo uomo, timorato da un dio che considera altro da sé, come del resto crede di qualunque altra forma della vita. Ma, contemporaneamente, avviene il momento per l’avvento dell’uomo compiuto.

Il piccolo uomo è l’oracolo vivente, è la più precisa e ferrea garanzia di quanto stiamo assistendo nel mondo ora più che mai. La morte di Dio, l’equiparazione tra sé e Lui o, meglio, l’ideologia che se ne possa fare a meno, ci ha portati dritti dentro il sacco nero del nichilismo passivo, disperatorio, perdittivo. (Di tutt’altra natura da quello che lui distingue in attivo, che altro non è che la consapevolezza di essere gli autori del mondo e della realtà, quindi per sua natura parziale e relativa, che, invece di annichilire, comporta forza, piena consapevolezza della realtà che viviamo). Un buio che equipara i valori, che elegge il relativismo a norma suprema e che porta con sé l’individualismo più sfrenato in quanto ignaro ai suoi innumerevoli adepti, cioè a tutti noi.

È invece faccenda dell’oltre uomo vivere la consapevolezza che la morte di Dio non è che la rinascita dei valori capaci di unire gli uomini con il senso dell’umanità come comunità. Non è che il recupero del potere creativo liberato dalla morale del cristianesimo o, anzi, della morale mortificante e inibitoria, della vulgata del cristianesimo, sollevazione da un peso che gli permette di accedere a piene mani al suo potere di conoscenza apollinea o estetica ovvero, a mezzo del sentire e del vedere e a quella dell’azione dionisiaca, creatrice e distruttrice, ma questa volta compiuta nella più assoluta responsabilità e nella più assoluta mancanza di vittimismo e narcisismo. Non più con il jolly, perenne asso nella manica del piccolo uomo, da giocare per lavarsi le mani dalla responsabilità dello stato e della qualità della storia progressista, positivista, materialista e ora tecnologico-digitale in cui è immerso, compiuta in nome di quello che lui chiama progresso. Ma di cui non si sente responsabile in quanto, a suo dire, esiste, avanza e muta di per sé, indipendente dalle scelte dell’uomo. Così, invece di sentire la vergogna e il peso per quanto ha maldestramente realizzato, semplicemente ed innocentemente, estrae il secondo jolly, col quale pensa di liquidare serenamente il discorso: “Bellezza, la storia va avanti da sé”.

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Il piccolo uomo crede che capire intellettualmente sia tutto, che la dimostrazione ripetibile non abbia rivali per distinguere il vero dal falso. Non sospetta che capire, così come l’ovvio, sono sentieri che si allontanano dalla conoscenza.

Veleggia in poppa del buon senso che, naturalmente, lui ha e gli altri ne difettano. Che, invece, gli altri ne abbiano un altro a loro immagine e somiglianza, non è che non gli interessa, non lo sospetta proprio. Non si avvede che fare appello al buon senso è come dare dello stupido o del perspicace in quanto, ognuno lo è a modo suo e al suo momento opportuno. Il buon senso contiene ciò che si presta ad eleggere noi stessi ed esclude gli altri. Tuttavia anche costoro non fanno difficoltà ad appellarsi al buon senso, e anche costoro sono ignari della truffa che stanno compiendo.
Non sa che i suoi giudizi, con i quali vuole distanziarsi da quanto osserva, non sono che erbacce che prosperano soltanto nel suo giardinetto egocentrico. Alla medesima maniera con cui sfodera il suo richiamo al buon senso, non balbetta nel pronunciare altro di simile, per esempio, senza esagerare, assaggialo che è buono, e così via. Nonché tutta la perfetta morale, creduta una soltanto, alla quale ritiene di essersi avvicinato più di altri, ma a lui misconosciuta in quanto generata da noi stessi e messa al nostro servizio, la cui natura autoreferenziale non esprime il giusto e lo sbagliato – come vogliamo credere – ma nient’altro che noi stessi.

Dunque, la prevaricazione del giudizio si compie con l’identificazione in esso. Una trappola esistenziale per la quale l’oltre uomo ha un salvacondotto inestinguibile. Egli infatti dispone di uno sguardo sul mondo di carattere fenomenologico, non più interpretativo, cioè non egocentrico. Uno stato, quello dell’uomo compiuto, che non comporta l’elusione del giudizio – pressoché insopprimibile negli stati di coscienza – ma l’emancipazione da esso, a causa della piena consapevolezza della garantita parzialità e provvisorietà, e della sua natura corrispondente all’interesse personale. Una consapevolezza che, se superata la soglia morale e quella legislativa, e fatta carne e sentimento, comporta l’accettazione di sé e il rispetto del prossimo in quanto in esso vediamo noi stessi e un frutto della stessa pianta alla quale siamo appesi noi. Una modalità non cognitiva, moralistica, né inclusiva, tutte dimensioni estremamente superficiali, facili da infrangere all’occorrenza egocentrica.

L’uomo compiuto, nient’altro che l’oltre uomo, non nasconde i propri sentimenti, non teme, né risente dei piccoli giudizi dei consuetudinari, non nasconde sotto il tappeto le sue malefatte, non mente per proteggersi dagli strali dei probiviri. Non reagisce alla loro del tutto prevedibile incapacità di sfruttare prospettive che guardano fuori dalla loro scatoletta di conoscenze tecnico-amministrative, nonché sussidiarico-replicative.

Il piccolo uomo è superstizioso. Per esempio, crede ciecamente che l’esperienza sia trasmissibile. Se provi a dirgli il contrario, salta sulla sedia. Sempre che arrivi a porsi la domanda, chissà, allora, come farà a spiegarsi perché non siamo saggi da millenni. Né come mai, nonostante sia disposto ad andare in piazza a gridare di ricordare affinché la storia non si ripeta, la storia non fa altro che ripetersi.

La sua passione per le forme mondane – come detto, si crede differente da chiunque altro – gli impedisce di cogliere il solo spirito che produce le stesse realtà, le stesse dinamiche, le stesse sofferenze e gioie. Chissà come potrà mai capire l’eterno ritorno, senza vivere la sorpresa – con occhi spalancati e capelli sparati – di constatare d’aver sprecato l’esistenza correndo dietro a fantasmi, giocando tutto sui particolari e perdendo sempre l’intero.

Dentro il piccolo uomo nietzschiano, risiede l’ultimo uomo. Questa figura è una specie maschera della morte. Riferisce infatti di uno spirito adagiato sulle consuetudini ed esaurito in esse. Descrive un uomo che crede di non avere nulla a che fare con le stelle, tanto da non saperne creare. La sua vitalità mortificata non glielo permette. Il miracolo di schiudersi dall’ovetto che lo contiene, lo protegge, non può avvenire e, se stimolato, tranquillo sostiene non lo riguardi.
Così ci troviamo nel degrado crescente e, pare, senza fondo, dentro una storia più simile ad un bolide guidato da pazzi che a un lento vascello diretto ai tropici.

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Messaggio al piccolo uomo:
“«La cosa più misericordiosa al mondo» scrisse Lovercraft «è l’incapacità della mente umana di mettere in relazione tutto ciò che contiene. Viviamo in una placida isola di ignoranza in mezzo alle acque torbide dell’infinito, e non è nostro destino viaggiare lontano. Finora le scienze, perseguendo ognuna la propria strada, ci hanno danneggiato in minima parte, ma verrà il giorno in cui il mosaico di tutti i frammenti della conoscenza ci offrirà una visione talmente agghiacciante della realtà, e del posto che occupiamo al suo interno, che o impazziremo dinanzi a quella rivelazione, oppure rifuggiremo l’illuminazione rintanandoci nella pace e nella sicurezza di una nuova era oscura»”.
Benjamìn Labatut, La pietra della follia, Adelphi, 2021, p. 13-14.

Ci poniamo solo le domande che le costellazioni, che abbiamo scovato nei nostri piccoli cieli, ci suggeriscono, e noi, come attori con il gobbo, non tardiamo a ripetere il copione. Inconsapevoli di questo, facciamo di noi piccoli individui.

Non c’è crocevia cui si possa sfuggire come quando la strada è dritta, raddrizzata a forza di prepotenza razionalistica e di quel maledetto buon senso, vela gonfiata dal vento delle nostre concezioni. Succede, però, che le cose cambino forma e disposizione e tu lo percepisci, ma non ti capaciti, e non hai neppure il tempo di avvertire il precipitare della tempesta che ti annienterà, senza lasciarti neppure il tempo per i terzaroli, e perciò, neppure quello per salvarti dallo strazio della solitudine, e delle sue allucinazioni, che tutto trasformano in marosi paurosi, ma solo quello del bagliore di un lampo per pensare che era stata tutta una buffonata ciò in cui avevi creduto, prima di perire in una morte fredda, senza più il calore dell’umanità di cui avevi sempre creduto di potere fare a meno.

Nota
*Anche Wilhelm Reich (1987-1957), ha utilizzato la formula piccolo uomo. Il carattere del piccolo uomo reichiano è stanzialmente il medesimo di quello qui tratteggiato.



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