PADOVA. La mattina sveglia presto, un bel caffè e poi via in palestra, ad allenare i ragazzini cresciuti nel mito di LeBron James. Nulla di strano, non fosse per una carriera che prosegue senza soluzione di continuità dal 1954. E che, con i suoi 94 anni, rende Fabio Fabiano l’allenatore di basket più longevo al mondo, o almeno così si dice a Padova. «Non lo dico mica io, ma chi continua a premiarmi, ogni anno. Io, in ogni caso, di coach più vecchi di me non ne conosco» scherza lui, di ritorno dall’ennesimo allenamento in palestra, per seguire i ragazzi delle giovanili del Petrarca, la squadra di Padova alla quale è legato dal 1954 e con la quale ha vinto tre campionati regionali.
Fabiano, e la pensione? Quella, in realtà, è arrivata: ma non dalla pallacanestro.
«Dalla pallacanestro non ho nessuna intenzione di andare in pensione. Ci andrò per estinzione. Dall’altro lavoro, invece, ci sono andato 33 anni fa: lavoravo alla Sip».
Come si è avvicinato alla pallacanestro?
«Per caso, come per tutti i grandi amori che si rispettino. Vedendo una specie di calza che scendeva da un ferro, ho chiesto a un amico: “Ma che roba è?”. E lui mi ha spiegato che la pallacanestro è uno sport che si pratica cercando di infilare la palla proprio in quella calza. Mi ha incuriosito e così ho iniziato a giocare, ma avevo già 18 anni».
Troppi?
«Abbastanza, sì. Anche se, da giocatore, sono riuscito a raggiungere la seconda categoria. Poi, l’allenatore che seguiva la prima squadra mi ha proposto di prendermi cura dei ragazzini e ho accettato. Avrò avuto 21-22 anni; adesso ne ho 94 e non ho mai smesso».
Che carriera è stata la sua?
«Rapidissima. Anche perché, all’epoca, gli allenatori erano merce rara. E quindi sono arrivato ad allenare allievi, juniores, e dalle giovanili sono approdato in Serie C. Sono stato anche assistente del grandissimo Aza Nikolić per un anno intero. E ho allenato anche una prima squadra di Serie A nel campionato di Eccellenza. Sempre e solo Petrarca».
Facciamo un passo indietro: che famiglia era la sua?
«Papà Bepi è stato un pittore di fama. Nato a Trani, si è trasferito a Treviso, seguendo un prozio che aveva un negozio dietro al Duomo: “Pasquale Fabiano, vino e liquori di Puglia”, ricordo ancora l’insegna. Qui in Veneto, papà ha avuto piuttosto fortuna come pittore, partecipando anche a diverse edizioni della Biennale. Era caricaturista, ha illustrato parecchi libri per ragazzi, ha collaborato anche con Arnaldo Mussolini. Era amico di Modigliani, insieme hanno fatto la fame a Parigi. Poi è tornato a Treviso e lì ha fatto di tutto, compreso il giornalista. Era molto legato a Giovanni Comisso».
E la mamma?
«La mamma era a capo della sala di commutazione, la Telve. Aveva 110 ragazze a cui assegnare orari. Una donna molto attiva, insomma».
Si capisce da chi ha ereditato la tempra. Ma com’è, fisicamente, allenare ragazzini che potrebbero essere i suoi bisnipoti?
«Le gambe non sono più quelle di una volta, anche perché ho un menisco rotto, quindi non posso correre. Alla mia età, più che mostrare i movimenti, do suggerimenti. Bisogna essere pignoli per scovare le origini degli errori».
Come sono cambiati i ragazzi, rispetto a quando era giovane lei?
«Sono cambiati almeno tre volte, ma perché è la società a essere diversa: dalla famiglia alla scuola, dalle interazioni sociali al lavoro. Per noi adulti è complicato, perché dobbiamo cercare di metterci in pari rispetto alla loro capacità di pensare il mondo e rispetto al loro modo di interpretare le cose; solo chi ne è capace che può rendersi utile. Questi ragazzi nascono e crescono bersagliati da moltissimi input, e hanno una capacità di apprendimento nettamente superiore rispetto a quella delle generazioni di precedenti. Per questo è giusto pretendere di più da loro. Se considerassi i 12enni di oggi come quelli di 70 anni fa, farei un errore madornale. I 12enni di oggi sono come i 18enni di allora».
E lo sport come è cambiato?
«Una volta si curavano i fondamentali, c’era una ricerca dei movimenti ergonomici, quasi come fosse una partita di scacchi. Adesso invece prevale la prestanza fisica: il giocatore più forte è quello che salta più in alto, che corre più forte, più bravo a fare il canestro che vale tre punti. L’efficacia del risultato ha sostituito il culto della bellezza. E per me – appassionato di pallacanestro, cresciuto apprezzando anche l’estetica del gioco – è molto triste».
La pallacanestro la guarda ancora in tv?
«No, proprio per questo. Mi annoia».
E allora perché continua ad allenare?
«Perché mi piace insegnare. Probabilmente, mi piace vedere fare ai ragazzi quello che avrei voluto fare io, ma che non ho potuto fare, per questioni di fisico ed età. È una specie di rivalsa».
E la sua famiglia non le dice niente?
«Ho quattro figli, sei nipoti e una bisnipote, e nessuno si azzarda a dirmi niente. Sanno che per me la pallacanestro è una cosa importante. Anche perché i miei coetanei di solito passano le giornate in osteria a giocare a carte e bere ombre di vino. Meglio andare in palestra, no?».
Quindi il suo elisir di lunga vita non è il classico bicchiere di rosso ad ogni pasto?
«Il mio elisir di lunga vita è la pallacanestro».
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