«L’Italia rilasci Abedini». Meloni ora teme l’impasse

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Il governo accelera sulla trattativa dopo le notizie sulle condizioni di detenzione. Teheran fa pressione su Roma per uno scambio. Ma i giudici: l’ingegnere resti in carcere. Il colloquio tra la madre di Sala e Meloni

«La cosa si allunga». Con la “cosa”, chi conosce bene le dinamiche di questo tipo di vicende, intende la trattativa per la liberazione di Cecilia Sala. Dopo che la giornalista è riuscita a comunicare ai familiari le tremende condizioni in cui viene trattenuta nel carcere di Evin, il governo ha voluto dare un segnale di accelerazione sulla vicenda. E il mandato che da palazzo Chigi arriva a chi sta gestendo la vicenda nei servizi è che il primo obiettivo è quello di migliorare le condizioni di detenzione di Sala.

Incalzato anche dalle opposizioni – nello specifico da Matteo Renzi, segue Elly Schlein con la richiesta di essere coinvolta – il governo si muove per la prima volta concretamente: in tarda mattinata Antonio Tajani dà mandato al segretario generale della Farnesina Riccardo Guaraglia di incontrare l’ambasciatore iraniano, mentre nel pomeriggio va in scena un vertice a palazzo Chigi a cui, oltre alla premier e al ministro degli Esteri, partecipano il responsabile della Giustizia Carlo Nordio, il sottosegretario alla presidenza Alfredo Mantovano e i vertici dei servizi. Subito dopo, la premier ha anche un colloquio telefonico col padre e riceve la madre della giornalista a palazzo Chigi. «La prima preoccupazione adesso sono assolutamente le condizioni di vita carceraria di mia figlia» dice Elisabetta Vernoni uscendo dall’incontro. Sul rientro in Italia «non chiedo tempi, perché sono realtà molto particolari». Ma «la premier ha fatto un salto di qualità dalle rassicurazioni comprensibili che ricevo sempre. È stata più precisa e più puntuale».

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I movimenti di Chigi, secondo chi conosce i meccanismi della Farnesina, sono la prova che le trattative per le vie brevi per ora sono fallite ed è ora di muoversi utilizzando i canali ufficiali. Nella certezza che passerà altro tempo, prima che si sblocchi qualcosa: uno stallo che permette al governo di alzare anche un poco la voce, con richieste puntuali all’indirizzo di Mohammad Reza Sabouri. Il segretario generale ha chiesto la liberazione immediata e, nel frattempo, la certezza di condizioni di detenzione dignitose oltre alla garanzia di una piena assistenza consolare, permettendo all’Ambasciata d’Italia a Teheran di visitarla e di fornirle i generi di conforto che finora le sono stati negati.

La versione dell’ambasciatore è tutt’altra. Fin dal suo arresto sarebbe stato garantito a Sala «l’accesso consolare all’ambasciata italiana a Teheran» e le sarebbero state «fornite tutte le agevolazioni necessarie, tra cui ripetuti contatti telefonici con i propri cari» si legge su X dopo l’incontro. Ma dal tweet della rappresentanza diplomatica della repubblica islamica emerge anche in maniera più chiara di quanto sia accaduto finora il contorno dello scambio che Teheran ha in mente.

L’Iran libererà Sala in cambio di Mohammed Abedini Najafabadi, l’iraniano arrestato a Malpensa su richiesta degli Stati Uniti. L’ingegnere sarebbe «detenuto nel carcere di Milano con false accuse» e Teheran «si aspetta dal governo italiano» che «reciprocamente, oltre ad accelerare la sua liberazione, gli vengano fornite le necessarie agevolazioni assistenziali di cui ha bisogno». Palazzo Chigi nella nota che segue all’incontro ribadisce che «a tutti i detenuti è garantita parità di trattamento nel rispetto delle leggi italiane e delle convenzioni internazionali».

Lo scambio

Insomma, domiciliari ad Abedini in cambio di condizioni migliori per Sala. O almeno, questo è quanto legge tra le righe chi conosce bene gli interlocutori persiani. Il problema è che la via di Meloni è stretta: non ha intenzione di scontentare Donald Trump, che si insedierà di qui a due settimane e l’interesse degli americani per Abedini rimane alto. Lo dimostra anche il plico che è arrivato alla procura generale di Milano per testimoniare la necessità di tenerlo chiuso in carcere e respingere l’istanza presentata dal suo legale per far ottenere i domiciliari al suo cliente.

Sulla stessa falsariga la procuratrice generale Francesca Nanni, che ha depositato il suo parere non vincolante: «La messa a disposizione di un appartamento e il sostegno economico da parte del consolato dell’Iran, insieme a un eventuale divieto di espatrio e obbligo di firma, non costituiscono una idonea garanzia per contrastare il pericolo di fuga».

Il governo deve trovare un’alternativa, che sia alle richieste degli americani o a quelle che arrivano da Teheran. Il problema è individuare la contropartita che può sbloccare la trattativa: sembrerebbe più facile trovarla guardando verso l’Iran. Il regime è in difficoltà, e di interlocutori moderati, fuori e dentro il governo, ce ne sono parecchi. A partire dal presidente, che in Farnesina più di qualcuno considera il destinatario del riferimento alla giornalista arrestata contenuto nel messaggio di Sergio Mattarella.

Qualcun altro non esclude che al regime si possa offrire altro: ci sono tecnologie di cui l’Iran ha un disperato bisogno, e non va dimenticato che il contingente italiano in Libano presidia un territorio molto importante per la geopolitica di Teheran. Resta anche il dubbio che il governo possa decidere di rivolgersi a qualcunoche possa prestarsi a fare da intermediario: in cima alla lista, per questo tipo di richieste, ci sono sempre le diplomazie turca e saudita.

Il problema è anche che non c’è un vero e proprio precedente a cui fare riferimento per una situazione di questo genere. La vicenda più simile è quella di Alessia Piperno, «ma quello era un governo differente, più forte» raccontano. E, per di più, la liberazione lampo di Piperno ora a Teheran viene vista come un credito da vantare nei confronti di Roma, che – come se non bastasse – ha appena fatto un torto agli iraniani con l’arresto di Abedini.

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Ma è un altro precedente che tormenta i sonni di Meloni. Per altro, uno su cui lei ha messo la firma, quello dei due marò arrestati in India nel 2012. «E allora i marò?» all’epoca era diventato una sorta di slogan della destra che contrapponeva ai governi di centrosinistra che lavoravano sottotraccia al rilascio di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. La premier vuole evitare la stessa sorte, motivo per cui avrebbe deciso di dare anche un segnale pubblico sulla vicenda. Per quanto riguarda le opposizioni, Mantovano si è reso disponibile per riferire al Copasir già stamattina. Certo, se la trattativa dovesse prolungarsi, non è detto che sia sufficiente.

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