Appianare la giustizia e renderla innocua per la classe dirigente.
La Riforma Cartabia da due anni a questa parte ha servito egregiamente al suo scopo: tramite una serie di ‘correttivi’, alcuni inutili e altri palesemente dannosi, è riuscita nell’intento di far sparire le notizie dai giornali e asservire il sistema giustizia alla classe dirigente.
È stato fatto lentamente, a piccole dosi, proprio per evitare che qualcuno se ne accorgesse. Ogni dubbio è stato spazzato via nel momento in cui il successore di Cartabia, Nordio, si è insediato per continuare il lavoro.
Il primo punto è naturalmente il Csm (il Consiglio Superiore della magistratura): la riforma Cartabia ha aumentato il numero dei componenti togati e laici ma, mettendo mano al sistema elettorale, ha letteralmente trasformato il Csm in una holding correntizia aggravando la situazione stagnante che il sistema Palamara aveva provocato. Questo ha indirettamente aumentato (e legalizzato) il peso della politica in seno all’organo di autogoverno.
La riforma è poi riuscita nella sostanza ad attuare uno dei punti del Piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli: la separazione delle carriere; un solo passaggio di funzioni da pubblico ministero a giudicante, possibile solo a distanza di 10 anni dall’entrata in magistratura.
Ora il governo dei ‘patrioti’ vorrebbe la separazione delle carriere effettiva con tanto di modifica costituzionale. Ma sarebbe solo una mera formalità. Una bandierina politica. A continuare è stata introdotta una novità che ha permesso a scassinatori, ladri, rapinatori, sequestratori, delinquenti comuni e rissaioli di commettere reati senza timore della giustizia: difatti alcuni reati contro la persona (come, ad esempio, il reato di lesioni personali stradali gravi o gravissime, nell’ipotesi non aggravata, o il reato di lesioni personali, anche lievi), alcuni delitti contro il patrimonio (come, ad esempio, la truffa aggravata dal danno patrimoniale di rilevante gravità), nonchè altri reati per i quali era prevista la procedibilità d’ufficio, divengono ora punibili solo nel caso in cui sia presentata querela dalla persona offesa.
Basti ricordare l’articolo de ‘La Stampa‘ che raccontò dei certi “topi d’auto che non si possono arrestare anche se colti in flagrante perché il proprietario non è in città e non può firmare la denuncia. Stupratori che potrebbero farla franca perché irreperibili. Borseggiatori seriali che finiranno fuori dal carcere in quanto le vittime sono turisti stranieri, tornati a casa dopo le Festività”.
E ancora: “Addirittura sequestratori che non finiranno a processo, se manca la denuncia del sequestrato. Al decimo giorno di applicazione della riforma Cartabia, dai palazzi di Giustizia, arrivano molte segnalazioni e proteste. L’intera macchina giudiziaria scricchiola sotto il peso delle novità. Si stanno verificando persino problemi ai sistemi informatici”
E i tribunali e le procure della Repubblica ne sanno qualcosa.
E poi il patteggiamento: strumento utilissimo per mafiosi e corrotti. Un esempio?
A Palermo, il 28 giugno 2023, il Consiglio per la giustizia amministrativa, equivalente siciliano del Consiglio di Stato, ha sospeso un interdittiva antimafia nei confronti di un imprenditore di Partinico che, nel 2020, aveva patteggiato una condanna a un anno e 10 mesi per associazione mafiosa (416 bis). Secondo il Codice antimafia, questa condanna avrebbe dovuto vietargli automaticamente di lavorare, accedere a finanziamenti pubblici e partecipare ad appalti. Tuttavia, con la riforma della giustizia voluta da Marta Cartabia, le regole sono cambiate. Il nuovo articolo 445 del Codice di procedura penale stabilisce che il patteggiamento non può più avere conseguenze al di fuori dell’ambito penale. In pratica, se sei condannato per mafia al termine di un processo, l’interdittiva antimafia scatta automaticamente. Ma se scegli di patteggiare, questo tipo di misura non si applica, perché la legge considera il patteggiamento diverso da una condanna definitiva.
Poiché le norme del Codice antimafia non sono considerate leggi penali, ma strumenti di prevenzione, l’imprenditore di Partinico, pur avendo legami con i clan, potrà continuare a lavorare. Lo stesso vale per chi è stato coinvolto in casi di corruzione: prima della riforma, un politico che aveva patteggiato una pena superiore ai due anni non poteva candidarsi in base alla legge Severino. Ora, invece, è possibile, perché anche la Severino è stata interpretata come una norma preventiva e non punitiva. La stessa logica si applica anche al Codice degli appalti, rendendo il sistema ancora più vulnerabile a infiltrazioni.
Scendendo lungo questo girone dantesco troviamo l’improcedibilità.
Coloro che sono in grado di allungare i tempi possono contare su questo meccanismo per vedere l’odiato processo andare letteralmente in fumo. Nessuna condanna e nessuna assoluzione; nessuna prescrizione.
Dopo due anni in Corte d’Appello e uno in Cassazione il processo viene cestinato con un foglio protocollato.
Inoltre già dal 30 dicembre 2022 chi è stato assolto in un qualsiasi processo potrà chiedere che il suo nome venga cancellato dai motori di ricerca.
Un vero e proprio oblio di Stato, una desertificazione dell’informazione: in uno Stato democratico la libertà di informazione e cronaca dovrebbero essere garantiti, come stabilito dall’articolo 21 della Costituzione ma al contrario, qui si ostacola la diffusione delle notizie, ergendo un muro nei rapporti tra cronisti e fonti istituzionali dei Corpi di polizia giudiziaria e delle procure che blocca informazioni su inchieste, omicidi, fatti di sangue e di violenza. Un bavaglio. Un attentato al diritto di informare e di essere informati. E il comunicato di Bergamo è solo la punta di un iceberg fatto di centinaia di casi.
In estrema sintesi non sarà possibile raccontare più alcuni reati, soprattutto quelli legati alle indagini che hanno colpito i cosiddetti ‘colletti bianchi’, funzionari di Stato, della politica e dell’imprenditoria.
La storia dell’inchiesta resterà in rete ma il soggetto assolto non potrà più essere trovato dai siti che lo hanno citato nel tempo.
Quello di Bergamo è un caso emblematico. È ancora forte nella memoria il surreale comunicato stampa con cui la Procura di Bergamo aveva annunciato la chiusura della maxi-inchiesta sulla gestione dell’emergenza Covid: 21 righe, senza un nome, senza un chiarimento sulle posizioni e sulle imputazioni, nessuna informazione utile per una ricostruzione giornalistica decente, un’indagine di enorme interesse pubblico che coinvolgeva l’allora governo, l’attuale presidente della Regione Lombardia e importanti dirigenti del ministero della Salute.
I nomi degli indagati si sono scoperti solo grazie a giornalisti che sono andati oltre le notizie ufficiali.
Ma coloro che fanno le leggi forse non comprendono che vale per tutti, sia per quelli che stanno in alto sia per quelli che stanno in basso.
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