Evoluzione dei musei: sfide e nuove opportunità nell’era digitale

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Fulvio Irace

Professore emerito del Politecnico di Milano

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Oggi i musei sono alle prese con la ridefinizione della loro identità in un contesto di mutamento dei paradigmi culturali, sociali e tecnologici. Un tempo pilastri dell’educazione, oggi si trovano ad affrontare richieste di integrazione digitale e dialogo globale. Questa evoluzione sfida i ruoli tradizionali, trasformando i musei in spazi dinamici per esperienze condivise e nuove narrazioni. Fulvio Irace, professore emerito del Politecnico di Milano, ci parla di questi cambiamenti.


Cos’è un museo, oggi è difficile da dire con esattezza perché ogni possibile definizione si scontra con l’impossibilità di riferirsi a un modello univoco. Infatti, per quanto i musei continuino spesso ad essere percepiti da molti come un’istituzione legata al passato, sostanzialmente immutabile o quasi immobile, la storia ci parla invece di continue trasformazioni, a volte striscianti, a volte invece, come in questi ultimi decenni, talmente radicali da metterne in questione l’identità. Veri e propri cantieri del tempo, nati come istituzioni private legate al possesso di importanti collezioni di nobili, di principi, di regnanti, i musei hanno finito con l’assumere un ruolo pubblico con l’affermarsi degli stati nazionali; figli dell’Illuminismo, hanno aperto le porte tutti i cittadini per rafforzare l’identità delle singole patrie e svolgere un ruolo didattico nella formazione di una cultura condivisa fondata sulla centralità del paradigma occidentale. L’Altes Museum di Berlino, con il suo dispiegamento cronologico dall’arte greca al XIX secolo, rappresenta tuttora il prototipo cui si ispirarono le grandi raccolte patrimoniali in tutta Europa: ad esso Karl Friederich Schinkel diede un impaginato architettonico rimasto sostanzialmente esemplare anche nella prima parte del secolo successivo. In forme auliche ispirate alla sacralità di un tempio del sapere, l’Altes conferì al museo lo status quasi sacrale di libro tridimensionale della storia dell’umanità, in modo che ciascun visitatore potesse trovarvi conferma del suo posto nel mondo, e ricavarne sostegno alla sua responsabilità nel contribuire al progresso della nazione.


Dal loro originario statuto ad oggi, i musei sono diventati i principali indicatori della crisi di senso (e di consenso) della loro funzione di fronte ai cambiamenti della sensibilità collettiva, al maturarsi di nuovi scenari culturali, al verificarsi di inedite condizioni sociali. È cambiata l’arte che un museo dovrebbe ospitare; sono cambiati gli utenti e i modi con cui essi considerano il contatto con l’esperienza artistica; è mutato infine il contesto entro cui pure il museo rifondato a metà del secolo scorso ha sinora operato. In Italia, ad esempio, il passaggio dalla dittatura alla repubblica generò la consapevolezza di un più stretto rapporto tra arte e società, secondo la nota formula di Herbert Read “Education through Art”, le cui conseguenze progettuali animarono la cosiddetta “stagione d’oro” dei musei. Fu uno dei suoi maggiori interpreti, Franco Albini, a sintetizzarne con efficacia la portata epocale, quando criticava il concetto di “ambientazione” cui si erano conformati sino ad allora gli allestimenti museali: questi miravano a creare rapporti con le opere esposte, ma non tenevano conto del visitatore, non preoccupandosi di avvicinarlo all’arte mediante un linguaggio coerente con la sua sensibilità. 

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Sono cambiati gli utenti e i modi di percezione dell’esperienza artistica ed è cambiato il contesto in cui il museo finora ha operato


Sostenendo la necessità di uno stretto rapporto tra architetto, grafico, scenografo e tecnico dell’illuminazione, Albini evidenziava l’importanza di un progetto globale che ponesse al centro la dimensione comunicativa, e dunque partecipativa, dei luoghi dell’arte e dei dispositivi d’allestimento. Nell’epoca della nascita del design industriale, ne utilizzò magistralmente i modi coniugandoli con i reperti del passato come nella celebre (e incompresa) sistemazione della testa di Margherita di Brabante, installata audacemente su un telescopico perno metallico. Il pistone di supporto per l’Elevatio animae diventa così non solo un espediente allestitivo, ma il manifesto di un momento storico in cui l’architettura italiana si interroga sul museo, le sue finalità e i suoi ordinamenti spaziali. Per usare una terminologia oggi assai in voga, prendeva corpo il tema della narrazione, cui ricorsero con diversa ispirazione Carlo Scarpa quando a Castelvecchio o al museo Correr riforma la pianta in funzione narrativa o i BBPR che al Castello di Milano escogitano soluzioni di una deliberata “funzione didattica popolaresca.” Eppure, a mezzo secolo e più di distanza, questi musei sono stati oggetto di profonde revisioni: valgano per tutti i casi di palazzo Bianco a Genova e della sala degli Scarlioni al Castello, mutilata del traguardo visivo della Pietà Rondanini, esposta isolatamente in un altro luogo secondo il progetto allestitivo di Michele De Lucchi che privilegia alla narrazione d’assieme il focus sul capolavoro unico e irripetibile oggetto di venerazione estetica.


In sintesi, se all’indomani della Seconda guerra mondiale i musei si proposero di ribadire il tema della democrazia lavorando sugli accessi alle collezioni e sui messaggi da trasmettere alle società uscite dal conflitto, oggi la pressione dei social ha di nuovo rimescolato i confini dell’accesso, imponendo al museo una funzione di regolatore sociale. Ciò ha comportato un passaggio cruciale dal dominio dei curatori e degli storici dell’arte a quello della mediazione sociale, dove sono i singoli, diventati attori a imporre al museo nuovi comportamenti, nuove regole, nuove domande, in un dibattito globale in cui fanno fatica ad emergere soluzioni eguali per tutti. È la stessa incertezza dimostrata dall’ICOM (International Council of Museums) che ha dovuto più volte aggiornare la definizione del canone, estendendola ai domini dell’immateriale, dell’intangibile, della sostenibilità e allargarne i compiti dalla mera conservazione alla comunicazione prima, e poi addirittura al diletto e al “piacere”. Nell’ultima dichiarazione del 2022, si legge infatti che i musei “operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze”. Tuttavia, appare chiaro come non sia più sufficiente affermare che i musei sono “al servizio delle società e del loro sviluppo” senza chiedersi come queste società siano cambiate e quali valori o esigenze rappresentino al giorno d’oggi, se si vuole evitare di cadere nell’equivoco di un canone interpretativo rispondente all’identità del solo mondo europeo o al massimo occidentale.


Grazie all’agilità digitale degli strumenti a disposizione si apre una strada ricca di potenzialità nella valorizzazione degli spazi

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La Pietà Rondanini di Michelangelo nel progetto di Michele de Lucchi che utilizza l’ambiente circostante per focalizzare l’attenzione sul capolavoro artistico. Mapei ha contribuito fornendo un sistema specifico per la posa dei pavimenti in legno.


Se le questioni di genere pongono ai conservatori il dilemma dell’inclusione e della revisione degli allestimenti, l’ingresso del digitale ha provocato un vero terremoto e l’intero patrimonio culturale si trova oggi al centro di un dilemma: deposito di identità consolidate o cantiere di nuove identità condivise? Mettere in mostra le opere è divenuto un elemento importante in moltissime strategie di diffusione culturale adottate dai musei, e le sperimentazioni sulla nozione di museo empatico hanno scardinato la tradizionale pratica del museo chiodo-parete e della white box; grazie anche all’agilità digitale degli strumenti a disposizione sembra aprirsi una strada ricca di potenzialità nella valorizzazione degli spazi a disposizione ,sia nel campo degli allestimenti provvisori che in quello delle collezioni permanenti. Ovviamente la facilità del digitale e del virtuale nascono anche derive in quello che è stato definito museo-luna park dove la spettacolarità e l’abuso di effetti speciali finisce col distruggere il valore della materialità in esposizioni che non a caso si definiscono eufemisticamente experiences.

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