Calabria, il tirocinio è una farsa ma lo sfruttamento è vero

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Microcredito

per le aziende

 


Ad ogni tornata elettorale esponenti di destra e sinistra si precipitano all’estremo sud del Paese per approfittare di un gigantesco bacino di voti: migliaia di precari delle istituzioni pubbliche calabresi e le loro famiglie. Promettono stabilizzazioni e stipendi fissi in una regione dove non c’è lavoro, non c’è ricchezza da distribuire, non è rimasto molto da depredare e le persone sono costrette a credere alle promesse elettorali come alle grazie delle madonne che piangono o delle santone, qui prese in estrema considerazione. In questo momento sono Lega e Forza Italia (che qui esprime anche il governatore, Roberto Occhiuto) a tentare di raccogliere consensi a causa di un emendamento che è passato nella manovra disegnata da Giorgetti.

LA NORMA PREVEDE qualche piccola miglioria e un’ulteriore proroga all’annosa questione dei tirocinanti, chiamati così anche se hanno smesso da anni di prendere lezioni e svolgono normali funzioni lavorative negli enti regionali. Anzi, funzioni indispensabili dato che sopperiscono alla drammatica carenza di organico delle amministrazioni locali ma dietro compensi indecenti e senza nessuna delle garanzie previste per i contrattualizzati.

«Non siamo visti come lavoratori ma neanche come precari da sistemare, siamo visti solo come un bacino di voti alla mercé del gioco politico» racconta Maria, 38 anni e una laurea, e per 10 anni ha avuto un ruolo in istituzioni sensibili senza alcun riconoscimento. Qualche mese fa ha vinto un concorso pubblico ed è uscita «da questo girone infernale dove per un’indennità da fame si è costretti a fare gli schiavetti dei sindaci per essere richiamati».

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L’intera vicenda è surreale: dopo la crisi del 2008 si decise di usare lo strumento della mobilità in deroga che consentiva alle persone licenziate di ricevere per 36 mesi un piccolo emolumento da Stato e Regione. Meno di 4 anni dopo nella sola Calabria i percettori di mobilità in deroga erano oltre 28 mila. Un numero alto ma comprensibile dato che lo scarso tessuto produttivo della regione non consentiva, a differenza di altri territori, di ricollocare i lavoratori. Si decise quindi di prorogare la misura per non lasciare un numero gigantesco di famiglie senza ammortizzatori sociali.

Nel 2012 è stato chiesto alla Calabria, come ad altre regioni, di superare le politiche passive per il lavoro in favore di quelle attive attraverso la creazione di percorsi di formazione e utilizzando le risorse europee del Por 2007/2013. Sono stati quindi istituiti dei tirocini semestrali in enti o aziende private con un rimborso di circa 250 euro mensili. Arriva il turno del governo Renzi di raccogliere consenso sui malpagati tirocinanti meridionali.

IL SUO MINISTRO del Lavoro, Poletti, prima con un decreto e poi con il Jobs Act, chiude la mobilità e perfeziona i tirocini. L’allora governatore calabrese del Pd, Oliverio, dato che le manifestazioni di interesse rivolte alle aziende andavano deserte, decide di parcheggiare 7 mila tirocinanti negli enti pubblici per cominciare a sopperire alla mancanza di personale. I tirocinanti vengono quindi smistati in tre ministeri (Giustizia, Cultura, Istruzione), nelle amministrazioni pubbliche (comuni e province) ma anche nella Asl, Asp, in consorzi, aziende partecipate.

DA UN PUNTO DI VISTA formale i tirocini si sono svolti dal settembre 2017 al gennaio 2020. «Il bando iniziale era di 24 mesi, comprensivo di attestato finale qualificante, io ho preso quello per l’edilizia acrobatica», racconta Francesco che prima lavorava in una multinazionale e ora è da 10 anni in forze al Castello di Scilla come tutto fare. L’indennità passa a 500 euro mensili «pagati con fondi regionali, senza contributi, ferie, malattia» specifica Francesco che denuncia: «Non abbiamo mai visto un ispettore del lavoro, sebbene siamo in tutto e per tutto impiegati a nero della Pa». Le persone in questa situazione rimangono in 3.967, «gli altri – dice ancora Maria – o hanno vinto un concorso o sono deceduti o non sono più in età da lavoro».

SI APRE POI una stagione fortunata, ancora in corso, per il centrodestra calabrese e cominciano le proroghe attraverso emendamenti dei parlamentari del territorio. Tra questi c’è Roberto Occhiuto che nei suoi sei anni da deputato di Fi ha seminato proroghe (e l’aumento a 700 euro mensili per i tirocinanti) per poi raccogliere consensi alle regionali. Alla Camera rimane il suo collega di partito e corregionale Cannizzaro, che riesce a far approvare una ulteriore proroga sia nel 2023 che nella manovra di quest’anno.

Anche se adesso è la Lega locale, in deficit di consenso a causa del Ponte sullo Stretto, a fare propria la notizia di qualche piccola miglioria e a spacciarla come un grande risultato del governo. Non riuscendo però a eludere una domanda dei lavoratori statali «a nero» della Calabria: dove sono i fondi per la contrattualizzazione? «Nonostante gli aspetti positivi, la questione economica rimane irrisolta – hanno scritto Nidil-Cgil, Felsa-Cisl e UilTemp – con un investimento di 60 milioni di euro sarebbe stato possibile garantire contratti stabili a 4 mila famiglie calabresi, ma il governo ha scelto di destinare 13,5 miliardi di euro per il Ponte».

Francesco e un altro centinaio di colleghi invece hanno presentato una diffida alla Regione «per rivendicare, dopo anni di sfruttamento mascherato da tirocinio, la stabilizzazione del rapporto e per sanare i danni subiti». Ma chi può assumerli? I comuni dai bilanci così dissestatati che se non c’è il tirocinante per aprire il cancello la sede municipale rimane chiusa? Quelli che hanno permesso, a grosso rischio di contenzioso, ai tirocinanti di emettere carte d’identità? Come denuncia Saverio Bartoluzzi dell’Usb, tra i pochi a seguire fin dall’inizio la vicenda, lo scorso mese i tirocinanti sono rimasti anche senza stipendio.

«LA REGIONE – spiega il sindacalista – ha investito ulteriori 100 mila euro per far sì che i pagamenti non fossero più bimestrali ma mensili, migliaia di euro per velocizzare il nulla ed evidenziare lo spreco di denaro pubblico». «Questa non è gavetta, è sfruttamento becero che causa sudditanza fisica, psicologica e materiale» dice Maria, sintetizzando migliaia di righe degli editorialisti dei grandi giornali che a ogni elezione si sentono in dovere di spiegare perché e come votano i più poveri d’Italia.

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