La libertà d’informazione è morta è Springfield

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La libertà d’informazione è morta è Springfield. O, almeno, nella capitale dell’Illinois ha fatto registrare la sua crisi più recente, e più profonda. Potremmo definirlo “l’altro 11 settembre”. Questa volta però, l’obiettivo dell’attacco non erano le Torri gemelle ma il mondo dell’informazione.

Era l’11 settembre del 2024 infatti, quando Donald Trump e Kamala Harris si confrontavano nell’unico dibattito in vista delle elezioni presidenziali. In quell’occasione Donald Trump, citando il suo vice J.D. Vance, affermò che “gli immigrati a Springfield mangiano i cani, mangiano i gatti, mangiano gli animali domestici della gente che vive lì”. Non era vero. Lo smentì subito uno dei conduttori, David Muir, citando il sindaco di Springfield. I media mainstream pubblicarono fior di reportage, mobilitando corrispondenti e inviati per verificare quella notizia, che si rivelò falsa. Intanto le parole di Trump erano state messe in musica e diventate virali sui social, arrivando anche nelle discoteche, dove schiere di giovani ballavano al ritmo del magnate americano, e delle sue fake news.

“Chiunque permette alla propria lingua di dire un mendacio, non dice il vero. E chiunque non dice il vero, mente”, scriveva William Shakespare. Più modestamente, ci hanno insegnato che le peggiori bugie, sono le mezze verità. La menzogna di Springfield però, va oltre: è stata smentita da tutti quelli che si sono esercitati nella sacra arte del “fact checking”, nonostante ciò si è rivelata uno dei cavalli di battaglia che porteranno alla Casa Bianca il 47° presidente degli Stati Uniti. E, con lui, l’uomo più ricco del mondo, Elon Musk, che non a caso possiede uno dei social media maggiormente diffusi nel pianeta: X.

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Le maglie del potere si stringono sempre di più sul mondo dell’informazione: è il caso del potere delle dittature, che stanno mettendo in crisi i sistemi democratici, ma anche del potere degli oligarchi o dei magnati che dir si vogliano, che sempre più snobbano i media tradizionali per orientarsi verso il mondo senza controllo del web. Seguiti poi, non a caso, dai politici, che si sottopongono ormai raramente alle domande dei giornalisti e comunicano direttamente con i loro followers, in video autoprodotti.

E poi ci sono ancora i metodi rozzi dei regimi, come quello di Teheran, che ha rinchiuso Cecilia Sala in una cella di isolamento nel carcere di Evin. Una giornalista che aveva il torto di essere in Iran per esercitare il suo mestiere e il diritto ad informare, ma anche di godere di una visibilità che consente al regime iraniano di alzare il prezzo per la sua liberazione. Sala aveva ottenuto un regolare permesso giornalistico per entrare nel Paese, ma non è bastato. Chi ha avuto la fortuna di girare il mondo per realizzare servizi giornalistici, sa che un tempo solo in alcuni casi si richiedeva il visto professionale, per non essere messi sotto controllo o più semplicemente perché non era necessario. Oggi sono sempre più rari i Paesi dove si può realizzare un servizio senza richiedere il visto giornalistico. Eppure quelle carte, pur necessarie, contano sempre meno, così come i diritti. E la prima vittima di questo mondo, affidato sempre più alla forza, è il diritto all’informazione, e alla tutela di chi la esercita.

E’ questo il filo rosso che lega il drammatico caso di Cecilia Sala, con le molte, troppe storie dei 553 giornalisti detenuti e 56 uccisi nel 2024 (Reporters Sans Frontieres). Mai così tanti negli ultimi cinque anni. “In un caso su tre, i reporter sono stati colpiti a morte dalle forze armate israeliane”, si legge nel rapporto di RSF. Nella striscia di Gaza, secondo il sindacato dei giornalisti palestinesi, più di 190 giornalisti e operatori dell’informazione sono stati uccisi dall’inizio degli attacchi israeliani. Proprio da quel fronte però, i soldati dell’esercito di Tel Aviv, hanno postato fior di video e selfie sorridenti, mentre bombardavano, distruggevano e saccheggiavano le case dei palestinesi. E’ questa la nuova frontiera dell’informazione?

All’inizio degli anni ’90, i primi giornalisti embedded che si accodarono all’esercito americano, suscitarono forti polemiche. Oggi non più: il conflitto di Gaza lo hanno potuto raccontare in prima persona solo quanti vivevano lì (molti ora sono fra le vittime di cui sopra…) o vi sono stati condotti dall’esercito israeliano, sotto il suo stretto controllo. Quelli dell’Iran e di Israele, purtroppo, sono solo due esempi, seguiti da molti altri Paesi, in guerra e non. Basti pensare al ferreo controllo dell’informazione operato dalla Russia, dalla Cina, e da molti altri regimi al potere ai quattro angoli del mondo.

Anche in Italia, nel nostro piccolo, seguiamo il flusso. E’ sempre Reporters Sans Frontieres a segnalare che nel 2024 abbiamo raggiunto il 46° posto, fra i 180 Paesi in cui viene verificata la libertà di stampa. Siamo scesi di cinque posizioni, nel 2023 eravamo 41esimi: “La libertà di stampa continua ad essere minacciata dalla mafia, soprattutto nel sud, così come da piccoli gruppi di violenti estremisti. I giornalisti però denunciano anche l’attacco dei politici, con la legge bavaglio” che vieta di pubblicare il contenuto delle ordinanze di custodia cautelare. Anche la Commissione Europea, l’estate scorsa, aveva richiamato il governo italiano a vigilare sui rischi per la libertà di stampa e l’indipendenza dei giornalisti. Vedremo se e quali novità ci porterà il 2025. Speriamo, prima di tutto, che ci regali il ritorno a casa di Cecilia Sala e, con lei, dei suoi preziosi reportage. Intanto, il 2024, ci lascia in eredità un mondo dalle frontiere sempre più chiuse, comprese quelle dell’informazione. Un mondo che rischia di cadere  vittima di dittature e fake news. A proposito: Trump ha stravinto anche a Springfield, con il 64,2 per cento dei consensi. Kamala Harris, che sorrideva sorniona mentre lui si prendeva gioco della realtà, si è fermata al 34,8.

 


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