di Fulvio Fiano
Nel giorno della sentenza di appello, ripercorriamo i punti chiave di una indagineche si gioca in buona parte su dati scientifici
Ripubblichiamo questo articolo di Fulvio Fiano, uno dei più apprezzati dai lettori appassionati di cold case, pubblicato il 12 luglio 2024.
Mentre davanti l’ingresso della città  giudiziaria di piazzale Clodio, a Roma, nella mattinata di venerdì 12 luglio alcuni cittadini di Arce si sono riuniti in sit-in e hanno affisso lo striscione con la scritta «Non può pagare solo lei!», per ragionare sulla sentenza della corte d’Assise d’Appello (che ha confermato l’assoluzione per la famiglia Mottola), non si può non partire dalle motivazioni di assoluzione in primo grado per insufficienza di prove e ripercorrere i punti chiave di una indagine – quella sull’omicidio di Serena Mollicone – che in buona parte, e in una incolpevole contraddizione, si gioca su dati scientifici ottenuti con tecniche all’avanguardia ma risente inevitabilmente del tempo passato e degli accertamenti irripetibili già svolti con conoscenze che oggi sono superate.Â
L’accusa
«Non guardate agli elementi di accusa separati tra loro ma alla assenza di spiegazioni logiche alternative», ha sostenuto il decano delle parti civili, Dario De Santis, invitando i giudici a superare la mancanza di una «pistola fumante» per condannare gli imputati. «Cento conigli non fanno mai un leone», gli ha risposto indirettamente uno dei difensori, Mauro Marsella, parlando di «indizi che vengono forzati per diventare prova, ma che in realtà dicono il contrario». L’accusa di omicidio volontario in concorso si traduce in 24 anni di condanna chiesti per l’ex maresciallo dei carabinieri Franco Mottola e 22 a testa per la moglie Annamaria e il figlio Marco. Per il carabiniere Vincenzo Quatrale (concorso in omicidio e istigazione al suicidio) la pg chiede l’assoluzione, mentre per l’altro militare dell’Arma, Francesco Suprano, 4 anni per favoreggiamento (ha rinunciato alla prescrizione).
L’orario della morte
La prima grande questione irrisolta è l’orario della morte, avvenuta in una forbice che — a seconda dalle letture dei consulenti delle parti — rende compatibile il decesso sia con l’aggressione in caserma ad Arce la mattina dell’1 giugno, sia in un momento diverso. Orario e risultati della prima autopsia e studio della colonizzazione delle larve di mosca sul cadavere sono al centro di queste ipotesi opposte.
L’ultimo avvistamento
La procura generale ha ottenuto di introdurre nell’Appello due testimonianze (tra cui quella dell’ex imputato Carmine Belli) che collocherebbero Serena Mollicone e Marco Mottola assieme in un bar alle porte di Arce la mattina in cui poi lei è scomparsa. Le difese ne contestano l’attendibilità e valorizzano quella di un collega dello stesso Belli che la retrodata al pomeriggio precedente e anzi «avvistano» Serena, nel pomeriggio di quel venerdì.
I capelli di Marco Mottola
Da questo avvistamento discende un’altra questione assai dibattuta, ossia il colore dei capelli del figlio del maresciallo. Con le meche secondo l’accusa, che ha portato in aula il suo barbiere di allora, castano chiaro secondo la difesa. La capigliatura confermerebbe o meno che in auto a litigare davanti al bar con Serena ci fosse davvero lui.
La testimonianza di Tuzi
La madre di tutte le questioni è la testimonianza di Santino Tuzi, il brigadiere di piantone in caserma la mattina dell’1 giugno. «Ho visto entrare Serena intorno alle 1130 e non è più uscita», è la frase chiave detta dal carabiniere dopo sette anni, poi ritrattata e ancora confermata poco prima del suicidio. «Tuzi è attendibile e altre testimonianze lo confermano», dice l’accusa. «Si contraddice (la stessa pm di Cassino, Beatrice Siravo, ne aveva bocciato la credibilità in una precedente indagine, ndr) e le sue dichiarazioni sono inutilizzabili», dicono le difese. Tuzi, al pari dell’altro carabiniere imputato, Vincenzo Quatrale (per il quale viene chiesta l’archiviazione), si sarebbe reso conto dell’aggressione alla ragazza al piano superiore della caserma, scegliendo di non dire nulla per anni e poi crollando sotto il peso di quel segreto rivelato. L’iniziale accusa di istigazione al suicidio a carico dello stesso Quatrale era stata ritirata già in primo grado.
La porta lesionata
L’altro punto chiave è quello della porta degli alloggi degli ufficiali in caserma come possibile arma del delitto. Impossibile riassumere le decine di udienze ad esaminare tutti i test scientifici condotti dai consulenti su questa ipotesi. L’accusa identifica l’impatto su una superficie «liscia e piatta» all’origine della ferita al capo di Serena e risale a quella porta dalla alta compatibilità del calco del cranio della ragazza nella lesione del legno e dal tipo e distribuzione delle schegge nei capelli della 18enne. La difesa parla di test condotti male dal punto di vista metodologico, insiste da sempre sul punto di impatto troppo basso rispetto all’altezza della ragazza (ancor più della sua arcata sopraccigliare), sostiene la contaminazione dei reperti (il nastro isolante che avvolgeva il capo del cadavere). Discorso analogo per il frammento di vernice bianca che secondo l’accusa proverrebbe da una caldaia sul balcone della caserma dove la 18enne fu tenuta prima di occultarne il corpo.
Le impronte sul nastro
A favore delle difese ci sono sicuramente le impronte digitali sullo stesso nastro che non appartengono agli imputati (nessuna loro traccia c’è sul cadavere). L’accusa le spiega con la presenza di complici mai identificati (vane le ricerche in primo grado) al momento del «confezionamento» del corpo. Le difese le usano come «prova regina» dell’innocenza, forti anche della sentenza di primo grado che parla esplicitamente di «soggetti terzi» come autori del delitto.
Il movente
Altro elemento rimasto vago è quello del movente e delle ragioni che avrebbero spinto Serena in caserma a incontrare il suo futuro assassino. «Voleva denunciare Marco Mottola» per lo spaccio, ha sempre sostenuto il papà della 18enne, Guglielmo. Tesi sostenuta a lungo anche dai pm, che poi hanno in parte virato sulla urgenza della ragazza di andare in caserma a reclamare i libri (mai più trovati) sui quali preparava la sua tesi di diploma in criminologia, che sarebbero rimasti nell’auto di Marco durante la lite «per ragioni che non sappiamo» davanti al bar.
Depistaggi e testimoni
Franco Mottola, secondo l’accusa, avrebbe depistato in maniera decisiva le indagini per coprire se stesso e il figlio. L’accusa porta tanti elementi a sostengo di questa ipotesi, dalle incongruenze nell’ordine di servizio secondo cui quella mattina Mottola sarebbe stato lontano dalla caserma, alle sue tardive o errate indicazioni nella prima fase delle ricerche (in particolare sul tipo e colore di auto dove il figlio era stato visto con Serena al bar), fino alle testimonianze ignorate o alterate e alla creazione di piste alternative per confondere le acque. «Non aveva la responsabilità delle indagini», argomentano le difese. Come in primo grado, la procura ha chiesto di indagare sulle false dichiarazioni di alcuni testimoni apparsi reticenti.
Ruoli e complicitÃ
Nella ricostruzione dell’accusa, Marco avrebbe spinto la testa di Serena contro la porta, poi sarebbe stato fatto uscire per crearsi un alibi mentre il padre e la madre imbavagliavano e legavano la 18enne tramortita per poi disfarsene la notte stessa. La porta sarebbe stata poi spostata in un altro alloggio (con la complicità del carabiniere Suprano) da dove è «riemersa» con il cambio di guida della caserma. «Perché non se ne sono disfatti, se erano in grado di ordire un piano così perfetto?», chiedono le difese. E ancora: «Perché Quatrale, Suprano e lo stesso Tuzi avrebbero dovuto coprire il maresciallo Mottola mettendo loro stessi a rischio?». Anche su quest’ultimo passaggio, scagionando Quatrale la procura ha in parte ricalibrato il tiro: «Poteva non essersi reso conto della situazione».
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