Raffaele Guariniello: «Fra calcio e giornalismo scelsi la giustizia perché cambia le cose. Bobbio e Conso i maestri. Non sapevo di aver ispirato Rocco Schiavone»

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di
Barbara Notaro Dietrich

Il magistrato: «Ho sofferto quando si scrisse che stavano morendo dei bambini perché impedivo ai genitori di curarli col metodo di Vannoni. Mi risolsi a far causa civile, l’unica della mia vita, e ovviamente la vinsi»

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Raffaele Guariniello, classe 1941, non ha perso un briciolo della sua elegante compostezza, la stessa che aveva perfino in bicicletta con il suo imprescindibile loden. Alle spalle della sua scrivania le foto dei nipoti. A lato un impressionante numero di cd di musica classica e opera che ama molto, in particolare i compositori italiani e quando può va a sentirle all’estero. Per il resto palestra alle 7 di mattina e poi studio e scrittura sovente fino alle 11 di sera.

Qual è il suo primo ricordo?
«Uno dei miei primi ricordi, certo quello che mi è rimasto più impresso, è di me in braccio a mia madre che corre in cantina perché stavano bombardando».




















































A proposito di genitori come è stato avere un padre napoletano e una madre piemontese?
«Quello che ha detto Danilo Dolci, ovvero che mettevo assieme la fantasia meridionale e la freddezza settentrionale».

A tavola com’era?
«Mia madre si era abituata a quella meridionale. Le piaceva molto».

E suo padre aveva nostalgia del mare o del clima natio?
«Certo. Ma si trovava molto bene qui a Torino. Tutti gli anni andavamo al mare, a Salerno».

Per questo non le piace la montagna e ama il mare?
«Sogno di vivere al mare, ma ho bisogno della città per trovare subito quello che cerco».

Pare che Antonio Manzini si sia ispirato a lei per via del loden di Rocco Schiavone. La onora?
«Ah sì? Non saprei. O meglio mi onora che uno scrittore si sia ispirato a me ma non leggo libri gialli, né vedo fiction in tv. E del resto il merito andrebbe a mio padre».

Cioè?
«Mio padre faceva il sarto. Uno dei più grandi. Metto ancora i vestiti fatti da lui. Ho gli armadi pieni».

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Le piace sempre il calcio?
«Me ne sono allontanato un po’. Mi piaceva praticarlo. Per un pelo non sono diventato professionista».

Racconti.
«Da giovane me la cavavo talmente bene che Boniperti in persona mi aveva selezionato. Mio padre si oppose e dunque non se ne fece nulla. Per fortuna aggiungo».

Se non avesse fatto Giurisprudenza?
«Pensi che andai anche a vedere una scuola tecnica, l’Avogadro. Ma non mi convinse. E dunque feci il classico e poi Giurisprudenza. Cominciai, essendo allievo di Conso e Bobbio, la carriera universitaria però anche se mi interessava molto lo studio, volevo che diventasse operativo, che ciò che studiavo si trasformasse in azione concreta di giustizia e quindi non andai a Sassari a insegnare ma feci il concorso in magistratura».

Ma un altro mestiere non se l’è mai immaginato?
«Il giornalista. Per dare il buco agli altri! Le inchieste, quelle fatte bene, o le segnalazioni di reato possono dare il là a un’indagine. Lo sa bene che si può procedere anche se nessuno sporge denuncia ma d’ufficio. Per me è stato così nel caso Stamina. Lessi un pezzo proprio sul Corriere e partii con l’indagine».

Ritiene che i giudici siano imparziali?
«Paradossalmente non è questo che conta ma la preparazione, perché se uno studia ed è preparato non può essere che imparziale».

Prima diceva della freddezza settentrionale. Forse più che freddo è riservato. La si vedeva e si vede poco in ambito sociale.
«Sì. Continuo a esercitare la buona pratica di quando lavoravo e che mi hanno trasmesso i miei maestri».

Cioè?
«Discrezione e riservatezza. Evitare quei rapporti con le persone che non consentono di preservare autonomia e libertà sul lavoro».

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Chi è stato il suo mentore?
«Bobbio che abitava qui vicino e andavo sovente a trovarlo, anche Galante Garrone, ma il più formativo per me è stato Giovanni Conso, di cui ho cominciato a fare l’assistente in Università».

Mai stato interessato al diritto civile?
«Mai. Solo penale. Pensi che c’era un presidente di Corte d’Appello che mi diceva che se volevo fare carriera, dovevo fare il civile. A me è sempre interessato fare le cose che mi entusiasmano. Insomma, mi piace il diritto che serve, che ambisce a far cambiare le cose. Il penale dunque meglio del civile. Anche se ultimamente devo purtroppo constatare che la giustizia penale non fa più paura quasi a nessuno».

Prima era diverso?
«Quando iniziai in pretura i reati per cui si procedeva erano guida senza patente, assegni a vuoto… la grande scoperta che abbiamo fatto è che c’erano leggi che prevedevamo come reati anche quelli sul lavoro: gli infortuni, illeciti ambientali, disastri. Ci fu un seminario organizzato dal Csm in cui i magistrati si trovarono assieme e si scambiarono esigenze ed esperienze. E da allora è partito tutto quello che ha portato a una giurisprudenza che non si era mai vista. Noi siamo partiti da un momento in cui nel 1975 un procuratore generale disse che l’infortunio era una calamità. Le confesso che ultimamente mi chiedo se stiamo tornando agli anni Settanta».

E che cosa occorre fare per evitarlo?
«L’idea di fondo è che ci vuole la specializzazione. Da anni ho questa idea di una Procura nazionale sui grandi temi della salute, del lavoro e ambientale. Le esperienze che noi abbiamo fatto sono indicative. Prendiamo il caso Thyssen, un processo durato 10 anni con 5 gradi di giudizio e tuttavia non si è concluso con la prescrizione e quindi le condanne son rimaste. E questo perché le indagini le abbiamo fatte in 2 mesi e mezzo. Tutte le indagini. E non perché fossimo più bravi ma più specializzati. La specializzazione poi me la sogno anche in ambito parlamentare. Siamo in un momento molto critico, ma resto sempre pieno di speranza».

Come ci si specializza?
«Per esempio io dagli anni Ottanta leggo tutte le sentenze della Cassazione penale. Quelle di oggi pochi minuti prima che lei arrivasse e non immagina quanti spunti. E anche la possibilità di citare precedenti durante un processo. Poi si scoprono anche altre cose terribili».

Tipo?
«Il numero spaventoso di molestie a carico di bambini da parte dei famigliari. E bisognerebbe capire la causa, le ragioni profonde».

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Chi l’ha più fatta arrabbiare, ammesso che lei si arrabbi?
«Ho sofferto molto quando si scrisse che per colpa mia stavano morendo dei bambini perché io impedivo ai genitori di curarli col metodo di Vannoni. Mi risolsi a far causa civile, l’unica della mia vita, e ovviamente la vinsi».

Chi l’ha commossa di più?
«I parenti della Thyssen e quelli dei malati e morti di mesotelioma. Persone di grandissima dignità e di una sofferenza indicibile».

Perché continuiamo ad avere questo triste primato di morti sul lavoro?
«Le leggi ci sono. Quella del 2008 consente di fare cose straordinarie solo che rimangono scritte sulla carta e così si diffonde tra le imprese meno serie un senso di impunità e tra i parenti delle vittime un senso di giustizia negata. Occorre anche partire da un caso per allargarsi, cosa che mi è sempre stata rimproverata».

Ovvero?
«Se cade un ponte o una gru o c’è un disastro in una fabbrica o in un supermercato, occorrerebbe chiedersi come stanno gli altri ponti e le altre gru, gli altri supermercati».

A lei non piace mandare la gente in galera vero?
«Cerco di capire le ragioni, capire che cosa c’è dietro. Credo nel processo giusto, nei confronti delle vittime e degli imputati che devono essere altrettanto tutelati. Lo sa qual era il tema che mi aveva affidato Conso? La libertà personale dell’imputato».


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30 dicembre 2024 ( modifica il 30 dicembre 2024 | 07:05)

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