La legge sull’Autonomia spaccherà l’Italia?

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Lo scorso 19 giugno il Parlamento ha approvato in via definitiva la riforma sull’autonomia differenziata (Legge 86/2024) che, benché sia espressamente prevista dagli articoli 116 e 117 della Costituzione, così come modificati dalla legge costituzionale di riforma del titolo V della Costituzione, ha provocato e provoca tutt’ora forti tensioni a livello nazionale. Si tratta, infatti, di una legge che ha dato attuazione all’articolo 116 della Costituzione dove al comma 3 è scritto che “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia[…]possono essere attribuite a altre Regioni con legge dello Stato su iniziativa della Regione interessata”. Sulla base di intese tra governo e Regione si realizzerebbe, quindi, un federalismo differenziato.

Ben quattro Regioni governate dal centro-sinistra (Puglia, Toscana, Sardegna e Campania) hanno però presentato ricorso alla Corte Costituzionale per far dichiarare illegittima la legge, ai sensi degli artt. 2, 5 e 97 Cost., mentre il 26 settembre scorso sono state consegnate alla Corte di Cassazione ben un milione e 300mila firme in calce al quesito referendario per la cancellazione della Legge 86/2024. La Corte costituzionale lo scorso 15 novembre, pur ritenendo non fondata la questione di costituzionalità dell’intera legge, ha accolto in parte il ricorso e ha sollecitato il parlamento a modificare alcuni aspetti del provvedimento ritenuti in contrasto con la Costituzione. Mentre l’Ufficio Centrale per il Referendum presso la Corte di cassazione, con un’unica ordinanza, depositata il 12 dicembre 2024, ha dichiarato conformi a legge le richieste di referendum relative all’abrogazione totale della legge n. 86 del 2024 sull’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e non conforme a legge la richiesta di referendum relativa all’abrogazione parziale della stessa legge n. 86 del 2024. L’ok definitivo spetterà ora alla Corte Costituzionale che si pronuncerà entro gennaio.

Ma nel dettaglio, cosa prevede la legge  26 giugno 2024, n. 86 (Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione) e perché è così divisiva?

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Roberto Calderoli Ministro per gli affari regionali e le autonomie della Repubblica Italiana

Gli obiettivi della legge sono contenuti, seppur in maniera contorta, nell’art. 1 il quale recita: “La presente legge, nel rispetto dell’unità nazionale e al fine di rimuovere discriminazioni e disparità di accesso ai servizi essenziali sul territorio, nel rispetto altresì dei princìpi di unità giuridica ed economica, di coesione economica, sociale e territoriale, anche con riferimento all’insularità, nonché dei princìpi di indivisibilità e autonomia e in attuazione del principio di decentramento amministrativo e per favorire la semplificazione e l’accelerazione delle procedure, la responsabilità, la trasparenza e la distribuzione delle competenze idonea ad assicurare il pieno rispetto dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza di cui all’articolo 118 della Costituzione, nonché del principio solidaristico di cui agli articoli 2 e 5 della Costituzione, definisce i princìpi generali per l’attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e per la modifica e la revoca delle stesse, nonché le relative modalità procedurali di approvazione delle intese fra lo Stato e una Regione, nel rispetto delle prerogative e dei Regolamenti parlamentari”.

La disposizione afferma, in modo contorto come evidenziato da più parti, principi in parte contrastanti, come quello del decentramento e quello solidaristico previsto dall’art. 2 della Costituzione che la legge non riesce a garantire pienamente, come poi accertato dalla Corte Costituzionale.

Il secondo comma della disposizione prevede poi un limite invalicabile all’applicazione della normativa de qua e statuisce che “l’attribuzione di funzioni relative alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia relative a materie o ambiti di materie riferibili ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti equamente su tutto il territorio nazionale, è consentita subordinatamente alla determinazione, nella normativa vigente alla data di entrata in vigore della presente legge o sulla base della procedura di cui all’articolo 3, dei relativi livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, ivi compresi quelli connessi alle funzioni fondamentali degli enti locali, che devono essere garantiti equamente su tutto il territorio nazionale nel rispetto dei princìpi sanciti dall’articolo 119 della Costituzione”. Tali livelli indicano “la soglia costituzionalmente necessaria e costituiscono il nucleo invalicabile per rendere effettivi tali diritti su tutto il territorio nazionale e per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale, per assicurare uno svolgimento leale e trasparente dei rapporti finanziari fra lo Stato e le autonomie territoriali e per favorire un’equa ed efficiente allocazione delle risorse e il pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni inerenti ai diritti civili e sociali”. A tale riguardo, l’articolo 4 stabilisce i principi per il trasferimento delle funzioni alle singole Regioni (concesso solo dopo la determinazione dei Lep e nei limiti delle risorse in legge di bilancio), senza i quali non vi potrà essere autonomia. La determinazione dei costi e dei fabbisogni standard avverrà dopo l’indagine della spesa storica dello Stato in ogni Regione nell’ultimo triennio.

La legge, poi, attribuisce l’iniziativa alle Regioni, una volta sentiti gli enti locali e dispone che “ogni Regione può chiedere più autonomia in una o più materie e le relative funzioni. Segue il negoziato tra il governo e la Regione per la definizione dell’intesa preliminare”. Viene, anche, prevista l’istituzione di una cabina di regia composta da tutti i ministri competenti, assistita da una segreteria tecnica, collocata presso il Dipartimento per gli affari regionali e le autonomie della Presidenza del Consiglio. I suoi compiti saranno quelli di effettuare la ricognizione del quadro normativo per ogni funzione amministrativa sia statale sia delle regioni ordinarie e l’individuazione delle materie dei Lep sui diritti civili e sociali che devono essere garantiti in tutto il territorio nazionale; tale organismo ha due anni di tempo per svolgere i propri lavori. Inoltre, il governo entro 24 mesi dall’entrata in vigore del provvedimento dovrà varare uno o più decreti legislativi per determinare livelli e importi dei Lep; invece, lo Stato e le Regioni avranno 5 mesi per definire l’accordo; le intese potranno durare fino a 10 anni e poi essere rinnovate, oppure potranno terminare prima, con un preavviso di 12 mesi.

Per quanto concerne il procedimento di approvazione delle intese, viene statuito un sistema alquanto farraginoso: la richiesta deve essere deliberata dalla regione interessata e poi trasmessa al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro per gli affari regionali e le autonomie. Quest’ultimo, acquisita la valutazione dei Ministri competenti per materia e del Ministro dell’economia e delle finanze entro i successivi 30 giorni, inizia il negoziato con la Regione interessata. Lo schema d’intesa preliminare tra Stato e Regione, unitamente alla relazione tecnica, è approvato dal Consiglio dei ministri e trasmesso alla Conferenza unificata per un parere non vincolante da rendere entro 30 giorni. Decorso tale termine, lo schema viene comunque trasmesso alle Camere per l’esame da parte dei competenti organi parlamentari, che si esprimono mediante atti di indirizzo entro 60 giorni. Il Presidente del Consiglio, poi, approva lo schema di intesa definitivo, ove necessario al termine di un ulteriore negoziato. Lo schema viene, poi, trasmesso alla Regione interessata per l’approvazione e, entro 30 giorni dalla comunicazione dell’approvazione da parte della Regione, lo schema d’intesa definitivo, corredato dalla relazione tecnica, viene deliberato dal Consiglio dei ministri insieme a un disegno di legge di approvazione da presentare alle Camere.

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Il Consiglio dei Ministri guidato dal premier Giorgia Meloni

Va anche sottolineato che il provvedimento normativo assegna un forte potere di veto al Presidente del Consiglio. Infatti, il comma 2 dell’articolo 2 della legge quadro sull’autonomia stabilisce che “al fine di tutelare l’unità giuridica, nonché di indirizzo rispetto a politiche pubbliche prioritarie, il Presidente del Consiglio dei Ministri, anche su proposta del Ministro per gli affari regionali e le autonomie o dei ministri competenti per materia, può limitare l’oggetto del negoziato ad alcune materie o ambiti di materie individuati dalla Regione nell’atto di iniziativa”. Si precisa, anche, che, ai sensi dell’art. 116, comma 3 Cost., per l’approvazione definitiva del disegno di legge, a cui l’intesa è allegata, è richiesta la maggioranza assoluta dei componenti di ogni Camera. L’intesa può essere modificata su iniziativa dello Stato o della Regione e può prevedere le ipotesi e le modalità tramite cui lo Stato o la Regione possono chiederne la cessazione, da deliberare tramite legge a maggioranza assoluta delle Camere. Alla scadenza del termine, l’intesa si intende rinnovata per identico periodo, salva differente volontà dello Stato o della Regione, manifestata almeno un anno prima della scadenza.

La legge riguarda le 23 materie “concorrenti”, ed è questo il fulcro della vicenda politica, economica e sociale, cioè: l’istruzione, fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche; i rapporti internazionali delle Regioni con l’Ue; il commercio estero; la tutela e la sicurezza del lavoro; le professioni; la ricerca scientifica e tecnologica  e l’innovazione per i settori produttivi; la tutela della salute; l’alimentazione; l’ordinamento sportivo; la protezione civile; il governo del territorio; i porti e gli aeroporti civili; le grandi reti di trasporto e di navigazione; l’ordinamento della comunicazione; la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia; la previdenza complementare integrativa; il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; la valorizzazione dei beni culturali e ambientali e la promozione e l’organizzazione di attività culturali; le casse di risparmio, le casse rurali aziende di credito a carattere regionale, gli enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Si tratta in prevalenza delle materie relative alla legislazione concorrente.

La legge prevede anche tre fasi attuative. Nella prima le Regioni possono ottenere subito le funzioni relative a 9 delle 23 materie; per queste materie il Comitato per la fissazione dei Lep (CLEP) ha ritenuto che non vi fossero livelli essenziali delle prestazioni da garantire. La seconda fase devolutiva si aprirà solo dopo che lo Stato avrà determinato i livelli essenziali relativi a funzioni LEP che non incidono sulla spesa storica, che cioè non richiedono nuove risorse economiche. La terza fase, la più critica, riguarda le funzioni dove sono previsti i cosìdetti livelli essenziali delle prestazioni (LEP), dove cioè il passaggio avverrà se e quando saranno rinvenute le risorse necessarie. A tal proposito si stabilisce che l’attribuzione di nuove funzioni relative ai “diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” viene consentita subordinatamente alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni da parte della Cabina di regia. Il finanziamento dei LEP, sulla base dei relativi costi e fabbisogni standard, verrà attuato nel rispetto degli equilibri di bilancio e dell’art. 17 della legge di contabilità e finanza pubblica (legge n. 196/09). Se dalla determinazione dei LEP deriveranno nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, si potrà procedere al trasferimento delle funzioni solo dopo i provvedimenti legislativi di stanziamento delle risorse finanziarie coerenti con gli obiettivi programmati di finanza pubblica. Inoltre, se dopo la data di entrata in vigore della legge di approvazione dell’intesa, saranno modificati i LEP col relativo finanziamento o ne siano determinati ulteriori, la Regione interessata sarà tenuta alla loro osservanza, subordinatamente alla revisione delle relative risorse. Il Governo o la Regione potranno, anche congiuntamente, disporre verifiche sul raggiungimento dei LEP.

La Commissione guidata da Sabino Cassese ha ipotizzato dei criteri per definire i fabbisogni standard, quindi i costi dei Lep: le caratteristiche dei territori, le condizioni e il costo della vita della Regione, il clima, gli aspetti socio-demografici della popolazione residente. Per molti però, questa è un’iniziativa politica, attraverso la tecnica, per fissare questi livelli in maniera differenziata fra le regioni, e ai livelli più bassi possibile soprattutto al Sud in modo da renderli compatibili con gli attuali assetti di bilancio.

Inoltre, le funzioni trasferite alla Regione potranno essere da questa attribuite a Comuni, Province, città metropolitane, unitamente alle relative risorse umane, strumentali e finanziarie. Secondo il legislatore le intese in teoria non dovrebbero pregiudicare l’entità delle risorse da destinare a ciascuna delle altre Regioni. Sarà, anche, garantita l’invarianza finanziaria del fondo perequativo e delle altre iniziative previste dall’art. 119 della Costituzione per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, rimuovere gli squilibri economici e sociali e favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona. Ovviamente il provvedimento dispone che saranno garantiti gli specifici vincoli di destinazione e la programmazione già in corso alla data di entrata in vigore delle nuove norme.

Infine, l’art. 11, oltre a estendere la legge anche alle Regioni a statuto speciale e le Province autonome, reca la clausola di salvaguardia per l’esercizio del potere sostitutivo del governo. L’esecutivo dunque potrà sostituirsi agli organi delle Regioni, delle città metropolitane, delle Province e dei Comuni quando si riscontri che gli enti interessati si dimostrino inadempienti, rispetto a trattati internazionali, normativa comunitaria oppure vi sia pericolo grave per la sicurezza pubblica e occorra tutelare l’unità giuridica o quella economica; in particolare si cita la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni sui diritti civili e sociali.

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Con i governatori di Veneto, Lombardia e Piemonte hanno dichiarato di essere pronti a chiedere subito “il trasferimento delle competenze su 9 materie” che, sottolineano, “non prevedono la determinazione dei Lep”.

La Corte Costituzionale

L’intervento della Consulta ha però cambiato, almeno in parte, le carte in tavola. La Consulta in primo luogo, nell’esaminare i ricorsi delle Regioni Puglia, Toscana, Sardegna e Campania, le difese del Presidente del Consiglio dei ministri e gli atti di intervento ad opponendum delle Regioni Lombardia, Piemonte e Veneto, sottolinea l’aspetto unitario del nostro ordinamento costituzionale sulla base del principio di sussidiarietà e statuisce che “l’art. 116, terzo comma, della Costituzione (che disciplina l’attribuzione alle regioni ordinarie di forme e condizioni particolari di autonomia) deve essere interpretato nel contesto della forma di Stato italiana. Essa riconosce, insieme al ruolo fondamentale delle Regioni e alla possibilità che esse ottengano forme particolari di autonomia, i principi dell’unità della Repubblica, della solidarietà tra le Regioni, dell’eguaglianza e della garanzia dei diritti dei cittadini, dell’equilibrio di bilancio”. Il Giudice delle leggi ritiene, altresì, che “la distribuzione delle funzioni legislative e amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo, in attuazione dell’art. 116, terzo comma, non debba corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma debba avvenire in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione. A tal fine, è il principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni […]”. I giudici sottolineano, altresì, il rispetto dei principi dell’efficienza e della responsabilità politica degli enti locali e affermano che “[…] l’autonomia differenziata deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, ad assicurare una maggiore responsabilità politica e a meglio rispondere alle attese e ai bisogni dei cittadini”.

Inoltre è stato chiarito ad esempio come la legge di differenziazione non si deve limitare a dire semplicemente “si o no” all’intesa, ma implica, come detto, il potere di emendamento delle Camere; in tal caso l’intesa potrà eventualmente essere rinegoziata. Quindi il tentativo di chiudere il processo evolutivo facendone derivare l’esito da una partita a due tra singola Regione e governo non è stato ritenuto conforme a Costituzione. Inoltre, nelle materie in cui la legge Calderoli non ha individuato i LEP la loro devoluzione alle Regioni non potrà riguardare funzioni che attengono a prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Si tratta di un chiarimento estremamente necessario poiché il confine tra “materie LEP” e “materie no LEP” è molto labile. Anche per questo il governo è intervenuto con un articolo nel decreto Milleproroghe che prevede che sia “fatto salvo il lavoro istruttorio e ricognitivo” svolto sulla base delle norme dichiarate illegittime dalla Corte; inoltre “l’attività istruttoria per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) e dei relativi costi e fabbisogni standard, a decorrere dal 5 dicembre 2024 e fino al 31 dicembre 2025, è svolta presso il Dipartimento per gli affari regionali e le autonomie”. Dal 5 dicembre, ovvero dal giorno in cui sono state pubblicate le motivazioni dell’intervento della Consulta.  

A tale quadro di incertezza, si aggiunge poi il nodo della perequazione infrastrutturale come ribadito più volte dall’ufficio Parlamentare di Bilancio, “per la realizzazione effettiva dei livelli essenziali delle prestazioni”. Infatti, rimasta inattuata dal 2009, data di approvazione del federalismo fiscale, la perequazione infrastrutturale è oggi quasi priva di fondi. In realtà, originariamente vi erano 4,6 miliardi di euro, ma con i disegni di legge nn.13, 44 e 145 del 2023 e poi con la legge di Bilancio per il 2024 il governo l’ha definanziata, riducendone l’importo a 900 milioni di euro.

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Inoltre vi è la questione finanziaria chiave dell’autonomia differenziata che è l’aliquota di compartecipazione, cioè quante tasse rimangono nella regione “a maggiore autonomia”. Questa aliquota verrà fissata annualmente dalla Commissione paritetica che si insedierà dopo la firma dell’intesa. A seconda di qual è l’aliquota, ovviamente, ogni regione tratterrà sul proprio territorio una parte più o meno consistente del gettito fiscale anche a seconda delle materie per le quali ha chiesto la devoluzione. Altra cosa da evidenziare è che le commissioni sono una per regione, quindi ci sarà una trattativa privata caso per caso. Questo è il punto finanziario chiave della Legge Calderoli.

Il punto centrale e forse quello più trascurato della discussione sull’autonomia differenziata sono infatti le richieste di competenze da parte delle Regioni, ovvero l’elemento più importante. Regioni che di fatto chiedono di diventare delle Regioni Stato, con poteri pari a quelli degli Stati sovrani. Una situazione che non esiste in nessuna parte del mondo, in regioni nelle quali c’è l’elezione diretta del Presidente e dunque con il rischio di avere dei premier regionali con poteri estesissimi. Inoltre è poco chiaro il perché una Regione richieda una specifica competenza o perché dovrebbe essere più efficiente se gestita a livello locale. Visto che tra l’altro il documento del Dipartimento per gli affari regionali, cioè del Ministro Calderoli, che individua le 500 funzioni che sarebbero teoricamente trasferibili alle Regioni, non è disponibile sul sito.

I risvolti più temibili di questa legge sono quelli denunciati da tempo. Da un lato, lo spezzettamento dell’Italia in tante repubbliche quasi indipendenti, in regioni dotate di potere estesissimo e quindi la rottura nelle grandi politiche pubbliche dell’ambiente, dell’energia, della scuola, della sanità. Dall’altro, la possibilità che le Regioni più forti ricevano maggiori risorse per far fronte a queste competenze e che quindi si generino difficoltà nella gestione del debito pubblico e che ci siano degli effetti negativi per le regioni più deboli. Con un concreto rischio per i conti pubblici perché il Ministro dell’economia potrebbe disporre di un gettito fiscale molto minore per far fronte al debito e per far fronte ai servizi pubblici del resto del Paese, questo perché le regioni ad autonomia differenziata tratterebbero una quota del gettito fiscale delle tasse statali sul proprio territorio. Il punto è che queste regioni sono molto grandi, a partire dalla Lombardia, e quindi queste cifre potrebbero essere significative. Al momento non si dispone di nessuna stima affidabile perché l’importo di queste risorse dipende moltissimo dalle competenze che saranno concesse. Questo ci ricorda però un punto decisivo, e cioè che la chiave economica dell’autonomia differenziata non sta nei LEP, ma nel fatto che le Regioni si finanzierebbero solo attraverso un’aliquota di compartecipazione al gettito di imposte nazionali quindi con una totale irresponsabilità da parte della politica regionale nell’acquisire queste risorse.

In attesa del pronunciamento definitivo della Corte Costituzionale sulla questione referendum, l’intervento della Consulta rallenterà notevolmente l’iter di attuazione della riforma, che potrebbe non essere completato in questa legislatura, considerato che la legge, dopo l’adeguamento alla sentenza della Corte Costituzionale, sarà sicuramente modificata. Tra l’altro, qualora arrivasse un improbabile stop dalla Corte, un nuovo referendum abrogativo potrà essere riproposto in quanto il precedente non potrà essere votato dai cittadini elettori e quindi perderà la sua efficacia, mentre non si può escludere a priori che la successiva legge adottata sulla base dei rilievi della Consulta possa contenere ulteriori profili di illegittimità costituzionale. Infine, è da escludere che la riforma, allo stato, possa essere applicata per le materie “no lep” come ritenuto anche dalla maggioranza delle forze di governo (Fratelli di Italia e Forza Italia).

(leggi l’articolo https://www.corriereditaranto.it/2024/11/15/profili-illegittimi-per-legge-sullautonomia/)

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