2025: l’anno delle incognite globali e dei mostri nel chiaroscuro

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Anche quest’anno volge al termine; non si può dire sia stato peggiore dei precedenti, avendo confermato politicamente tutte le propensioni preesistenti, né migliore dei prossimi, stanti le premesse e l’impossibilità razionale di giungere a previsioni certe. Meglio rimanere su Gramsci, per cui il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri. Rimaniamo dunque sulla realtà, e proiettiamo ipotesi razionali, benché poco attraenti, partendo dal presupposto che non esiste alcuna shadenfreude, ovvero alcun intimo gaudio per le sventure altrui.

Il 2024 è stato un anno di elezioni che, tuttavia, non hanno fatto soffiare alcuna poetica brezza alla Walt Whitman, ma il temuto effetto tempestoso del battito d’ali di fin troppe farfalle.

Anche il 2025 preannuncia importanti consultazioni elettorali, a cominciare dall’inquieta Corea del Sud, fresca di votazioni per l’impeachment di un presidente probabilmente incompatibile con l’essenza stessa della politica, specie in prossimità di paralleli quanto mai labili. Anche l’Europa non è da meno, con elezioni tedesche incombenti dopo il collasso della coalizione di governo, mentre la Francia si dibatte in una crisi quanto mai incerta; chi non sa se riuscirà mai a recarsi ad un seggio elettorale sono i siriani, passati da un cinquantennale regime dispotico ed entrati nell’era di un’inedita e dubbia jihad in giacca e cravatta. La persistente patologia politica indica chiaramente una sindrome (al momento parigina) che impedisce maggioranze chiare, e obbliga ad un’instabile alchimia di alleanze a cui di volta in volta pagare dazio. Di fatto, il collasso dei governi franco tedeschi lascia l’Europa senza quella che, con pregi e molti difetti, è stata a lungo una guida priva di un disegno condiviso di ampio respiro. Insomma, la certificazione dell’assenza di politiche comuni aggravata dalle possibili negoziazioni che, singolarmente, i vari Stati intratterranno con la nuova Amministrazione USA.

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Da un altro punto di vista, nuove coalizioni, ascese al potere in concomitanza con l’unzione presidenziale americana di gennaio, potrebbero garantire maggiore stabilità in un mondo fin troppo cangiante: bello e impossibile, visto che gli eventi problematizzano la politica. Russia, Cina, la vera concorrente americana, Corea del Nord (che annovera i primi caduti nel fango ucraino), Iran hanno reso concreta la prospettiva di un asse autocratico che metterà alla prova il potere statunitense impegnato sulla balcanizzazione siriana, sulla sirianizzazione libica, sul fronte migratorio interno, sul contenimento del fentanyl, sul divide et impera tra Mosca e Pechino ma senza un Kissinger.

USA e UE saranno costretti ad investire subito nella resistenza a Mosca o a rassegnarsi a pagare un prezzo esorbitante in seguito, dato che la Russia è e rimarrà una sfida per l’Occidente, anche se non ancora matura per sostituire egemoni globali: la ricostituzione militare russa non rientra tra i se ma tra i quando con modalità incompatibili con un’Europa dolosamente inconsapevole, eccezion fatta per Polonia, Stati baltici, e le nuove entrate atlantiche Svezia e Finlandia, mentre rimangono aperte ipotesi e vie di sfruttamento artico, la poetica Polar Silk.

L’obiettivo russo rimane quello di degradare la capacità occidentale di contrasto creando spaccature atlantiche, a cominciare dalla modifica della dottrina nucleare che abbassa la soglia di uso atomico. Mosca confiderà dunque in un conflitto indopacifico tra Pechino e Washington, tale da concederle il tempo necessario ad una ricostruzione bellica capace di consentirle di prendere di mira il fianco est della NATO, un’ipotesi che si attaglia alla propensione russa di assumere rischi più che considerare variabili.

Intanto, post Assad, le forze saudite hanno attaccato obiettivi Houti nello Yemen settentrionale: il nuovo corso americano potrebbe aver iniziato a variare gli equilibri di potere. Elezioni dall’esito scontato anche in Bielorussia, dove il potere rigenera come Faust un presidente politicamente immune a vita e sulla cresta dell’onda dal 1994, anche se in condizione di vassallaggio di fatto verso la corte del Cremlino. Elezioni anche nel più vicino ed inquieto Kosovo, per i Serbi l’ennesima provincia ribelle generata dall’evoluzione storica.

Elezioni anche in Australia, dove il laburista Anthony Albanese teme (a ragione) di poter non essere confermato alla guida del Paese, in un evidente e comune caso di usura da potere. Anche l’umoristicamente definito (ma poi non tanto) 51° Stato americano si avvia alle urne, con un incerto Trudeau insidiato dal conservatore Poilievre.

Due gli aspetti in evidenza: il primo la sfiducia popolare verso politiche così ecumeniche da penalizzare la base sociale interna; il secondo una campagna elettorale che, dall’opposizione, non propone particolari soluzioni ma solo attacchi personalizzati, una prassi che porta generalmente a risultati scadenti, come all’Hôtel Matignon dovrebbero rammentare (ma non sembra). Lo spoil system, per quanto accattivante, non è stato così innovativo, visto che l’insoddisfazione degli elettori non ha mancato di farsi avvertire, sollecitata da diverse governance che complessivamente hanno deluso; i partiti che hanno mantenuto il potere, con accorte e nuove candidature, hanno tuttavia registrato un indebolimento dei consensi, con elezioni che non hanno impresso cambiamenti profondi nelle condizioni politiche fondamentali, ma che hanno fatto trasparire sofferenze sociali non adeguatamente apprezzate. Da un lato Paesi come Georgia e Venezuela hanno esaltato il coraggio di opposizioni compresse da autocrazie capaci di cooptare in anticipo anche Babbo Natale; dall’altro elezioni come quelle indiane, che hanno espresso una reazione all’illiberalismo di un tenace primo ministro, fino a giungere all’alta magistratura romena, costretta ad intervenire contro documentate ingerenze straniere.

L’egemone di turno, se vorrà imprimere un sigillo unificante in un mondo frammentato, dovrà superare evidenti disfunzionalità, soprattutto se, come tra i BRICS, ambisce ad un nuovo ordine mondiale sempre più ampio, tuttavia, sempre più frammentato e dove il generico risentimento per una parte o l’altra non basta ad assicurare un equilibrio di potere che, specie economicamente, ha bisogno di cooperazione. L’eterogeneità espansa dei BRICS, con un diffuso desiderio di mantenere utili flessibilità politico-diplomatiche nel liquido (in tutti i sensi) ambito di un G20 gestore di crisi, non permetteranno (forse) la genesi di blocchi da Guerra Fredda, tanto da determinare approcci misurati, incrementali, non di rottura. Insomma, per alcuni il BRICS rimane un progetto di governance forse bello, ma sicuramente – ora – impossibile, perché frammentato al suo stesso interno e fondato più su simbolismi propagandistici e minilateralisti che su una sostanza che non chiarisce strategie e privilegia la dinamica cinese hub and spoke.

Ed ora l’algida, onnipresente ed inevitabile principessa: l’economia, la spina nel fianco russo. La crescita del PIL reale globale dovrebbe rimanere stabile al +2,8% nel 2025-26, con le economie sviluppate in rallentamento, con una crescita in calo da +1,8% nel 2025 a +1,7% nel 2026, e quelle emergenti in aumento del +4,1% e con i rischi connessi a conflitti e protezionismo; comunque crescite basse condizionate dal debito pubblico e dalla frammentazione politica. Gli USA dovrebbero crescere del +2,3% nel 2025, per rallentare nel 2026 al +1,8%, con l’UE in crescita del +1,2% nel 2025 e del +1,5% nel 2026. Con la Germania che tenterà di uscire dalla recessione, la Cina, giocoforza orientata ai consumi per ridar respiro alla sua economia, si stabilizzerà intorno al +4,2% con l’India in crescita del 6,4% ed il Brasile del 2,5%; fanalino di coda la Russia con la sua economia di guerra e la necessità per la sua Banca Centrale di agire aggressivamente a fronte di un PIL che scenderà all’1,3% a causa del rallentamento dei consumi interni e degli investimenti.

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Una guerra commerciale entro la prima metà del 2025, con i dazi americani in salita, potrebbe aumentare i rischi finanziari, con le banche centrali dedicate alla crescita ed al contenimento dell’inflazione incrementata dall’aumento dei prezzi di trasporto. Insomma, non sembrano esserci molte probabilità per un allentamento della politica monetaria prima della seconda metà del 2025. Il commercio estero sarà dunque elemento vulnerabile nell’anno che verrà, ammesso che gli USA perseguano il decoupling o preferiscano aumentare i dazi; di certo la Cina risponderà più assertivamente che in passato, tutelando la valuta nazionale ma esponendosi alle reazioni americane ed europee, contrarie agli interventi di stato. Se la politica americana crea inflazione, rallentando il ritmo dei tagli dei tassi, il debito in dollari degli altri paesi crescerà. In MO il mercato dell’energia non è stato sul momento ed apparentemente intaccato dai conflitti in corso, benché i costi si ripercuoteranno sulla crescita di lungo periodo, così, tanto per aumentare l’instabilità tra Israele, Giordania ed Egitto.

Come ha rimarcato il FMI nel suo ultimo World Economic Outlook, è necessario prepararsi per tempi incerti, dove si impone all’attenzione il sistema fiscale internazionale con l’imposta minima globale sul reddito delle società, ovvero una tassazione minima del 15% sugli utili delle imprese multinazionali. Poiché è noto che i sogni son desideri, un primo ostacolo giungerà dai differenti regimi nazionali e dalla possibilità di spostare i profitti verso paradisi fiscali con dumping fiscale dopo la manipolazione dei prezzi di import ed export. Se è vero che la tassa minima globale deve affrontare un problema sistemico, una risposta coordinata globale probabilmente non si vedrà mai.

Qualche conclusione azzardata. Trudeau decadrà per Poilievre, mentre i cristiano democratici torneranno al potere in Germania, ereditando un’economia in difficoltà e confrontandosi con una Francia in bilico costante. L’Ucraina sarà costretta ad accettare colloqui armistiziali con una guerra destinata a protrarsi sotto altre forme, generale Kirillov insegna.

Non è escluso che i bilanci NATO aumentino di almeno un 1,5% entro il 2030. Il timore non conosce borsino neanche in Russia, dove il redde rationem economico incombe.

Anche l’anagrafe non conosce impedimenti, e Trump, oltre al resto, dovrà considerare, oltre l’avanzare dell’età, le tensioni con la Federal Reserve. Tanto per accontentare i distopici, in UK Starmer potrebbe incontrare difficoltà nel confronto con l’inconcludente populista Farage; realisticamente, Xi rimarrà al suo timone purché garantisca migliori condizioni economiche al popolo. Non facile, visto anche il ginepraio taiwanese. Più agevole prevedere un consolidamento dell’AI ed un’ulteriore divisione in macroblocchi politici.

In MO il destino siriano segnerà le evoluzioni di Turchia, Iraq, Giordania e Libano, con l’Iran sulla strada nucleare data la degradazione politico militare subita, su cui punta Israele.

L’economia americana è attesa ad un rialzo continuo, ad una bassa disoccupazione, ad un calo dei tassi di interesse, ad un vantaggio tecnologico d’avanguardia. Beninteso, non abbiamo certo dimenticato la mezzaluna turca sugli stabilimenti Piaggio, cosa che eleva la geopolitica anatolica e deprime la memoria del Cavalier Enrico Piaggio.

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Nel 2025 si ripeterà il cliché per cui bisognerà attendersi l’inatteso. Ovviamente si rimane liberi di abbandonare la strada della dura realtà per infilarsi nel primo e più ospitale pub disponibile. Quella è una certezza, fugace ma sicura.





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