Il dibattito sull’economia italiana vede il governo vantare successi, l’opposizione denunciare insuccessi, i media dare eco a contrasti tanto urlati quanto sterili. Per una valutazione obiettiva non resta che affidarsi alla statistica e documentare come rispetto al 2023 l’economia potrà aver chiuso il 2024.
Il prodotto reale risulterà in solo lieve aumento. Se verrà fissato dall’Istat sullo 0,5% il dato si unirebbe a quello del 2023 e alla previsione per il 2025 nel certificare che la crescita di trend resta condannata allo «zero virgola per cento», come prima del 2020. Il calo dell’attività manifatturiera (-3,5%) conferma il rischio che l’economia del Paese si risolva in un terziario scadente sia nel pubblico (la sanità è il caso più grave per carenza di mezzi) sia nel privato (turismo povero, bed and breakfast, bar all’angolo, fast food). Il Sud non riduce il divario perché accelera, è il Centro-Nord a frenare.
Alla dinamica mediocre del Pil hanno corrisposto consumi in termini reali anch’essi in solo lieve incremento. Vi hanno corrisposto altresì un reddito reale pro capite invariato rispetto all’anno precedente (per l’apporto degli immigrati alla popolazione), inchiodato sui livelli del 2000, sceso da allora al disotto del 20% rispetto alla media europea; salari reali infimi nonostante il modesto recupero dovuto alla raffreddata ascesa dei prezzi; ineguale distribuzione degli averi; un tasso di povertà non lontano dal 10% della popolazione (quasi sei milioni di persone, di cui 1,3 milioni in età minore).
GLI INVESTIMENTI in macchinari e impianti, sempre in termini reali, sono scemati del 2,5% e così le importazioni, mentre le esportazioni sono rimaste ferme. Il calo del 2024 fa sì che rispetto al Pil gli impieghi in beni strumentali (10%) non abbiano ritrovato neppure il livello del 2000 (11%), da cui erano crollati fino al minimo (8%) seguito nel 2013 alla restrizione di bilancio del governo Monti dopo l’irresponsabile gestione finanziaria Berlusconi-Tremonti.
Il calo è avvenuto anche per la lentezza d’attuazione dei progetti finanziati dall’Europa attraverso il Pnrr. Dei 200 miliardi disponibili ne sono stati spesi in un quadriennio appena una sessantina, nel 2024 non più che nei singoli anni precedenti. Mancano un resoconto della loro composizione e una stima dei loro effetti sull’economia. Rispetto al Pil il totale degli investimenti pubblici non supera il livello del 2009.
La competitività di prezzo del made in Italy non è migliorata, ma la debolezza della domanda interna e le minori importazioni hanno perpetuato l’avanzo della bilancia dei pagamenti di parte corrente con ulteriore deflusso di capitali, altri trenta miliardi investiti all’estero e non nel Paese.
L’OCCUPAZIONE è notevolmente aumentata, del 2% (420mila unità). Ma il prodotto ha progredito molto meno, con le imprese indotte dai bassi salari ad assumere anziché investire e innovare. Quindi la produttività, statica da vent’anni, è scesa almeno dell’1% e il costo del lavoro per unità di prodotto è salito (del 6% nel settore privato), con rischio di inflazione futura. La difficoltà dell’industria, non solo dell’automobile, prelude a disoccupati e cassaintegrati in diversi settori e luoghi.
L’indebitamento netto della Pubblica amministrazione ha solo in parte annullato la dilatazione degli anni precedenti. Resta pur sempre sul 4% del Pil, con l’avanzo al netto degli interessi forse raggiunto, certo non consolidato. Le entrate correnti di bilancio hanno superato di 25 miliardi (1% del Pil) le uscite correnti. Ciò è altamente positivo sebbene, diversamente da quanto il governo favoleggia, la pressione fiscale sia stata inasprita dal 41,5 al 42,5% del Pil. Ma il prezioso risparmio è stato assorbito nel conto capitale delle pubbliche amministrazioni dalle uscite meno produttive (circa 50 miliardi, fra cui quelli legati alla coda del famigerato bonus edilizio).
IL DEBITO PUBBLICO è quindi asceso a tre trilioni, arrivando a sfiorare il 140% del Pil. La legge di bilancio varata ieri stenterà a contenerlo. Le misure progettate non incidono né sulle spese non-sociali né sull’evasione dei tributi. I tassi dell’interesse, lungi dal diminuire ancora, potrebbero risalire gravando sul debito. Risaliranno se l’inflazione verrà innescata dagli Stati uniti, dove Trump vuole una spesa pubblica ingente e il blocco dell’immigrazione in una economia già in pieno impiego e con un lancinante, crescente, debito estero. Inoltre maggiori costi deriveranno dal grumo di negatività che i conflitti e le tensioni geopolitiche generano nel mondo: spese militari, protezionismo, autarchia, distorsioni produttive, frattura nei rapporti commerciali e nella cooperazione fra paesi.
Con le sue ombre e alcune luci il 2024 non risulterà l’anno economico peggiore vissuto dagli italiani negli ultimi decenni. Ma la condizione complessiva attuale e tendenziale, seppure migliorata rispetto al pesante lascito del precedente ventennio, non giustifica compiacimento. Al di là dei dati nazionali non esaltanti e di un contesto mondiale fitto di eventi sfavorevoli sul futuro dell’economia italiana pesano due elementi risalenti nel tempo.
La politica economica permane impari al rilancio dell’economia. Non è imperniata, in modo coordinato, sul risanamento del bilancio; sugli investimenti pubblici nella sanità, nella tutela del territorio e dell’ambiente, nell’istruzione; su un’azione specifica per il Sud; sulla correzione delle iniquità e della povertà assoluta; sulla modernizzazione del diritto dell’economia e della giustizia civile; sull’imporre alle imprese la concorrenza; sul rifiuto spinto sino a opporre il veto dell’Italia all’assurda equiparazione fra spesa corrente e spesa in conto capitale imposta alle pubbliche amministrazioni europee dal mercantilismo tedesco.
L’ALTRO ELEMENTO riguarda il sistema delle imprese. L’improduttività di oltre quattro milioni di unità con meno di due addetti (45% degli occupati nelle imprese) stenta a essere compensata dai pochi grandi gruppi rimasti e dal nucleo delle aziende che sono, sì, efficienti ma restano familiari, non si aprono a dirigenti esterni, non si quotano in Borsa, ripiegano addirittura sul delisting. Lo stesso distretto industriale non brilla. Ancor più grave sarebbe se le imprese italiane piuttosto che sull’accumulazione di capitale e sul progresso tecnico continuassero a puntare su danaro pubblico, evasione delle imposte, acquiescenza sindacale e salariale, cambio sottovalutato, bassa concorrenza.
Sia nello Stato sia nell’impresa occorre un radicale cambio di paradigma. Gli economisti lo hanno sollecitato. La Banca d’Italia, l’Accademia dei Lincei, altre istituzioni lo auspicano da anni. Non se ne vedono le premesse.
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