La storia di come l’Italia si gettò con troppa fretta nell’avventura dell’euro

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Nella metà degli anni Novanta si comincia ad affermare sempre più intensamente, ma informalmente attraverso la stampa e dichiarazioni pubbliche: l’Italia deve entrare in Europa. Nella crisi dei primi anni del decennio eravamo stati espulsi dal Sistema con una violenta svalutazione della lira. La debolezza della nostra moneta tendeva a riapparire, sia pure alternata a periodi di stabilità, nel corso del 1993 e del 1994. Nella crisi del 1992 la svalutazione della nostra moneta si era verificata nonostante un cospicuo aiuto – previsto dal regolamento dello Sme – ottenuto principalmente dalla Bundesbank per circa 20 miliardi di marchi, nonché un aiuto della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, per un miliardo di dollari. Il livello dei rendimenti dei nostri titoli di Stato a lungo termine si distaccava progressivamente e notevolmente da quello dei titoli degli altri Paesi fino a raggiungere in alcuni giorni un divario rispetto ai titoli tedeschi tra 800 e 900 punti percentuali. Pongo in atto preventivamente e in modo progressivo una restrizione con la dichiarata intenzione di ricondurre l’inflazione al di sotto del 4 per cento. L’azione di restrizione fu posta in atto attraverso i tassi di finanziamento concessi dalla Banca d’Italia alle banche e limitando drasticamente la creazione di base monetaria.

Nel giro di pochi mesi il cambio migliorò scendendo molto al di sotto delle mille lire per marco. Il divario rispetto ai titoli tedeschi dei nostri buoni del tesoro pluriennali si ridusse da circa 900 punti a 200 punti. Nel giro di circa due anni i prezzi dei beni di consumo discesero al di sotto del 2 per cento all’anno. Esistevano quindi le condizioni di prezzi, cambio, tassi di interesse per far parte della moneta comune, ma non le altre condizioni formalmente richieste dagli accordi per la partecipazione in materia di debito pubblico. Si decide a livello di Governo di rientrare nello Sme, ricostituito dopo la crisi dei primi anni Novanta. La partecipazione allo Sme per due anni almeno era necessaria per poi far parte del progetto della moneta comune. Continua a livello politico l’enfasi: «Dobbiamo andare in Europa». Il rientro nello Sme avviene naturalmente ai tassi di cambio stabilizzati dopo la crisi del 1992. All’insistenza di dichiarazioni pubbliche e politiche più o meno informali obietto: «Ma non siamo già in Europa? Siamo stati tra i fondatori». A quel punto non mi coinvolgono più nelle discussioni e quindi nelle decisioni. Il regime delle monete nazionali, nei confronti delle altre monete, è prerogativa istituzionale del Governo. Almeno indirettamente, quindi del Parlamento. Al governatore spetterà poi la pratica conduzione della politica monetaria e quindi del cambio. Il governatore può dire «non sono d’accordo» e dimettersi oppure affermare che per dovere del ruolo faccio ciò che mi si chiede. Ritenevo che sarebbe stato opportuno quantomeno attendere per entrare nella moneta comune, ma la decisione politica era esplicitamente orientata per una adesione immediata al sistema. La politica monetaria aveva svolto, come detto sopra, i suoi compiti di stabilizzazione del cambio e di riduzione del forte spread tra titoli pubblici italiani e titoli pubblici tedeschi che aveva raggiunto in alcuni giorni 900 punti. I controllo del credito aveva drasticamente frenato l’inflazione. Non aveva potuto certamente ridurre il rapporto tra debito pubblico e Prodotto interno lordo al di sotto del 60 per cento, rapporto richiesto per partecipare alla moneta comune. Bisognava mettere in atto politiche volte ad aumentare la produttività dell’industria e in generale a ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto.

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Nella riunione informale, drammatica, della notte del 25 marzo 1997 del Consiglio dei Governatori a Francoforte, quando si discute di quali Paesi abbiano i requisiti per partecipare all’euro, il Belgio e l’Italia non hanno i requisiti. Sono fuori per l’eccesso di debito pubblico. La Grecia ha deciso di attendere almeno un anno prima di entrare. Eravamo in quindici allora, il Regno Unito decide di non partecipare, indefinitamente; la Danimarca e la Svezia rinviano la decisione di partecipare. Perché l’Italia non può partecipare alla moneta comune? Perché il rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo è molto al di sopra della soglia richiesta nel Patto di Stabilità e Crescita, né c’è una tendenza alla diminuzione. Obietto: «Cari amici governatori, io non ritengo di poter dare il mio assenso a questa posizione poiché se domani si scrive nel Rapporto (cosiddetto) di Convergenza che l’Italia non partecipa verrà attaccata la lira sul mercato dei cambi. Salterà probabilmente il Sistema Monetario Europeo e verrà meno l’avvio dell’euro. Non è una minaccia, è analisi economica». Segui una lunga animata discussione. Nel rapporto si finirà per scrivere che l’Italia è molto preoccupata del suo elevato debito pubblico. Era mezzanotte, non potevo consultare nessuno a Roma; redigo un piano pluriennale di rientro del debito pubblico, ricollegandomi ad alcune analisi elaborate nel Servizio Studi della Banca, principalmente dal dottor Morcaldo. Mi impegno a proporlo al Governo per farlo diventare operativo. In giugno dello stesso 1997, chiamato in Parlamento, accolto favorevolmente di fronte alle Commissioni competenti del Senato e della Camera, illustro i problemi, i dibattiti, le conclusioni. Mi si chiede del perché del mio atteggiamento negativo circa l’entrata, fin dall’inizio, nella moneta comune. Rispondo: «La politica monetaria che ho attuato nel corso degli anni Novanta era volta a stabilizzare il cambi della lira, a ridurre l’inflazione e lo spread. Non ho posto in atto né consigliato alcun macello in termini di politica economica». Il banchiere centrale aveva in ogni caso il dovere di condurre le politiche che ho descritto, indipendentemente dal partecipare o meno alla moneta comune. Spiegai ancora: «Entriamo, ma il problema è come restare nell’euro. Quando si perde la manovra del cambio, si deve riacquistare flessibilità nel costo del lavoro e nella finanza pubblica, flessibilità che permetta di rimanere competitivi». Affermo quindi in Parlamento: «Non avremo più i terremoti monetari, ma avremo una sorta di bradisismo economico. Sapete cos’è il bradisismo? È il terreno che si abbassa gradualmente sotto il livello del mare, come avviene a Pozzuoli. Ogni anno perderemo qualcosa in termini di crescita rispetto agli altri Paesi».

Il 7 luglio del 1997 viene approvata – non è chiaro a quale livello istituzionale – e quindi pubblicata la Regola 1466.

*Ex governatore

della Banca d’Italia



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