La Birmania, i Wa e il narcostato: paradigma del nuovo capitalismo

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In una regione montuosa della Birmania, al confine con la Cina, vive una popolazione indigena: i Wa. Sono lì, indisturbati, da secoli. Nel 1962, i Wa vivono ancora in uno stato tribale – si ubriacano di vino di riso e hanno la pessima abitudine di tagliare le teste dei nemici e impalarle davanti ai propri villaggi come monito ai viandanti (il prestigio dei loro capi è direttamente proporzionale al numero di teste tagliate: la loro star, detto Uomo-Dio, ne conta 56, tutte ben scenografate davanti casa sua).

Seguono antichi culti, i Wa, ogni tribù ha il suo: chi è convinto di poter levitare, chi di parlare coi serpenti, chi di dialogare con gli spiriti, chi di trasformarsi in tigre nelle notti di luna piena. Soprattutto, i Wa sembrano impermeabili a qualsiasi tentativo di influenza esterna: ci provano i missionari cristiani battisti, ci provano i comunisti di Mao, ci prova il governo birmano, ma niente, tutto ciò che ottiene chi ci prova è di perdere, letteralmente, la testa. Ma arrivano gli anni Sessanta – si sa: anni imprevedibili – e nel territorio dei Wa accadono due fatti incogniti.

Il primo: alcuni “stranieri”, a differenza di tutti i loro idealisti predecessori, riescono a penetrare le resistenze degli ostilissimi indigeni, e a iniziare un dialogo con loro. Si tratta degli Esuli: i vecchi membri del Kuomintang, il Partito Nazionalista Cinese, esiliati dalla Rivoluzione di Mao e costretti, per sopravvivere, a inventarsi un mestiere nella loro piccola enclave thailandese. Gli Esuli scoprono che il territorio dei Wa è ricco, anzi ricchissimo di oppio.

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Promettendo loro riso, oro e spezie in cambio di enormi quantità d’oppio che andranno poi a rivendere nell’americanissima Thailandia, gli Esuli riescono dove tutti avevano fallito: inaugurano un commercio di oppio con i Wa, non ostacolato ma anzi benedetto dalla protezione degli Usa, come sempre ben felici di sostenere i pochi cinesi non comunisti rimasti in circolazione.

Il secondo imprevisto è diretta conseguenza del primo: alcuni aerei militari fanno cadere delle casse nel territorio dei Wa. Le casse sono piene di armi americane. Gli aerei sono della Cia. Si tratta di un errore: nel tentativo di rifornire gli Esuli di armi con cui organizzare una resistenza contro la patria maoista, la Cia ha però sbagliato localizzazione, e invece che agli Esuli, ha sganciato le casse di armi nell’ingovernabile e selvaggio territorio dei Wa.

La combinazione di elementi dà seguito alla reazione, e il lettore l’avrà già capita: i Wa, dietro la guida dell’idealista Saw Lu, capiscono che il papavero da oppio può diventare il mezzo per conquistare ciò che agli oppressi del mondo è spesso negato: una patria, un’autonomia politica, un governo autonomo.

Il bellissimo libro di Patrick Winn, Narcotopia – di recente uscito per Adelphi – racconta la storia tanto straordinaria quanto ambigua di questo popolo che ha fatto del commercio di eroina lo strumento della propria libertà dal gigante americano.

Utopia tossica

Come scrive Roberto Saviano nella Prefazione, è la storia, così spesso replicata negli anni della Guerra Fredda, di «americani che se ne vanno in giro ad armare soldati che, nelle intenzioni del danaroso committente, dovrebbero prendere a calci il nemico comunista, ma che nella realtà fanno un po’ il cavolo che gli pare, sfuggono al controllo, abbracciano cause che ritengono più degne, si ribellano a un’agenzia che regolarmente li tratta come fessi d’alta montagna, sempliciotti rissaioli, stupidi illetterati».

Ma, con la stessa spaventosa regolarità, la Cia riceve il benservito: «Il fesso si rivela assai meno fesso di chi voleva controllarlo, l’illetterato si scrolla di dosso l’onta dello stupido, e d’un tratto appare chiaro che per avere ragione di un avversario supponente non occorre una laurea. E neanche un diploma. E neanche, in fin dei conti, saper scrivere o leggere».

Allo Zio Sam, che pretendeva – come da tradizione – di usarli come utili idioti buoni solo per dar fastidio ai comunisti cinesi (o per morire nel tentativo), i Wa hanno risposto con quello che a noi può sembrare un paradosso: uno stato libero e autonomo la cui economia è basata sul commercio di stupefacenti. Un narco-stato semisocialista. L’utopia di Thomas More sognata da un tossico: una narcotopia, appunto.

La religione capitalista

La vicenda dei Wa raccontata da Winn rappresenta un caso di studio su cui si possono fare diverse riflessioni. Ne azzardo due. La prima è di natura teologica: non si capisce mai bene cos’è il capitalismo se non lo si interpreta come un fenomeno religioso. Il Mercato non è più un semplice attore economico: è un culto a tutti gli effetti. Quella che siamo soliti chiamare globalizzazione è forse la vittoria della religione dell’impero.

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La vicenda dei Wa, letta in questo senso, funziona esattamente come una parabola delle virtù positive dei nuovi dèi: il Mercato vince dove tutte le ideologie – dal comunismo cinese al nazionalismo birmano fino al cristianesimo battista – hanno fallito; il Mercato riesce a modernizzare un popolo che per secoli ha vissuto isolato fra le montagne dedito al taglio delle teste, portandogli elettricità, computer e antibiotici; il Mercato lancia quel popolo come attore commerciale su scala internazionale, trasformando un’aggregazione di tribù in uno tra i principali spacciatori di cocaina e metanfetamine del pianeta.

Anche se in questa storia gli Usa fanno la parte dei babbei, importa poco: è il Mercato che vince, il Mercato vince sempre – la sola liberazione possibile, sia pure sognata, sia pure criminale, non può che venire dal Mercato.

Forse sta lì parte dell’attrazione che le narrazioni criminali, da Gomorra a Narcos, continuano a esercitare su di noi: i narcotrafficanti sono gli eretici dei giorni nostri. Pablo Escobar è il nostro Fra Dolcino; Saw Lu è Giovanna d’Arco. In un sistema oppressivo e totalizzante, il narcos diventa l’estremizzazione della legge che si rivolta contro se stessa, la violenza del capitalismo portata al suo grado più spericolato, non più temperata dall’etica o dalle regole, sfuggita persino al controllo degli stati. Una lotta fra capitalismo buono e capitalismo cattivo, tra ortodossia ed eresia, tradizione e avanguardia.

Liberazione e mercato 

La seconda riflessione è politica, e discende direttamente dalla prima: che piaccia o no, in un mondo globalizzato dal Mercato è impossibile immaginare una liberazione fuori di esso. Ogni conflitto col Capitale deve svolgersi dentro le regole del Capitale stesso. Qualsiasi alternativa – dalle comunità squatters alle riserve di decrescita felice – risulta disperante e ridicolmente utopica. In questo senso, ogni reato contro il Capitale diventa una violenta riaffermazione dello stesso.

Quello che sosteneva un grande penalista del secolo scorso, Franco Bricola – la rapina come rozza, primaria contestazione dell’economia di mercato – si rovescia oggi nel suo contrario: il reato non contesta il capitalismo, ma punta a sua forma più avanzata e selvaggia. Invece di negarlo, lo evolve. Ogni operazione contro il capitalismo ne conferma l’inevitabilità. I Wa non sono la dimostrazione che gli Usa si possono sconfiggere sul loro stesso terreno, ma casomai che il modello Usa è già stato superato dalla Storia: il capitalismo ha fatto un salto di specie, e – come vediamo, in altre modalità, negli esempi di turbocapitalismo cinese o indiano – sta già sperimentando una forma più bandita, più spericolata e deregolamentata, più piratesca.

«Ogni impero necessita dei suoi barbari», dice Patrick Winn, e non potrebbe avere più ragione. Ma non aggiunge che i barbari, alla lunga, sono diventati loro stessi l’Impero. Nella narcotopia dei Wa possiamo forse vedere in controluce quello che potrebbero diventare i nostri stati nell’epoca del turbocapitalismo unito alla rivalsa dei nazionalismi: piccoli fragili ecosistemi banditeschi che vagano in un cosmo capitalista cercando pericolosamente di tenersi a galla nella generale guerra di mercato del tutti contro tutti.


Narcotopia (Adelphi 2024, pp. 503, euro 30) è un libro di Patrick Winn 

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