Auto elettriche, effetto Cina: innoviamo o sarà la fine

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“La fine dell’auto come noi siamo stati abituati a conoscerla”, “le auto stanno diventando computer con le ruote”, “il software si sta mangiando il mondo e le auto sono la prossima voce prevista sul menu”, “le auto elettriche hanno più a che fare con il software che con l’hardware, ma le grandi case automobilistiche non sono ancora in grado di offrire software con prestazioni in linea con quelle richieste dalle auto e dai guidatori di oggi”.

Sono frasi o pezzi di frasi (con mie libere traduzioni) – tratte da un articolo del technology columnist di The Wall Street Journal Christopher Mims del maggio 2021 che ho ritrovato nel mio archivio – che mettono in luce come l’attesa di una trasformazione degli equilibri nel settore automobilistico fosse presente da anni.

Quello che nel 2021 forse non ci si aspettava è che la trasformazione fosse così veloce e violenta e che una serie di (allora) piccole case automobilistiche cinesi

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Contributi per le imprese

 

  • ispirandosi alla nuova visione di auto lanciata anni prima da Tesla, ma assumendo il controllo di tutta la filiera e innovando in punti critici della filiera stessa (la cinese CATL ad esempio è ora leader al mondo nelle batterie),
  • “scacciaressero” dal loro territorio (Fig. 1), divenuto negli anni precedenti il primo mercato automobilistico del mondo, le grandi case automobilistiche “tradizionali” (europee, statunitensi, giapponesi e sudcoreane) – alcune delle quali proprio in Cina realizzavano larga parte dei loro profitti (Volkswagen la metà) – e iniziassero anzi una controffensiva.

Fig. 1 – Le giovani e innovative imprese cinesi “scacciano” dal loro territorio le grandi imprese automobilistiche tradizionali

Le imprese cinesi controlleranno nel 2030 un terzo del mercato mondiale?

Alix Partners, la ben nota società di consulenza, in un rapporto pubblicato a giugno 2024 prevede che – nonostante le barriere doganali poste a difesa del mercato statunitense e di quello europeo – le case automobilistiche cinesi (diverse delle quali provenienti dal mondo tech) siano destinate a incrementare la propria quota sul mercato mondiale dal 21 per cento attuale (Fig. 2), con il solo 3 per cento realizzato al di fuori della Cina, al 33 per cento nel 2030, con ben il 13 per cento realizzato sui mercati esteri (attraverso l’export e/o la creazione di sussidiarie locali). La presa sul mercato interno dovrebbe ulteriormente aumentare, dal 59 al 72%, ma è soprattutto interessante guardare ai principali fronti di espansione a livello internazionale. Alix Partners ritiene che rimangano quasi impenetrabili i mercati giapponese e sudcoreano (dallo 0 all’1%) e comunque molto protetti quelli nordamericani (dall’1 al 3%), che sia un po’ più aperto il mercato europeo (dal 6 al 12%), ma che l’espansione più interessante e più promettente – caso russo a parte (dal 33 al 69%) – sia nelle nuove aree di sviluppo, quelle dove vive la maggior parte degli oltre 8 miliardi degli abitanti del mondo: Sud e Sud-Est asiatico (dal 6 al 31%), Medio Oriente e Africa (dall’8 al 39%), Centro e Sud America (dal 7 al 28%).

Le previsioni di Alix Partners, che come tutte le previsioni devono essere viste con beneficio di inventario, ci dicono però una cosa importante:

  • l’applicazione di tariffe doganali rilevanti quali quelle del 100% statunitensi – anche se non eluse (con l’insediamento ad esempio di imprese cinesi in Messico) – possono dare un po’ di fiato alle grandi imprese tradizionali (Tesla è ovviamente un caso a se stante),
  • ma nel contempo rischiano, soprattutto se prolungate, di ridurre gli stimoli all’innovazione e di renderle sempre meno competitive sui mercati (quali quelli delle aree in via di sviluppo) con le maggiori prospettive di crescita nel medio-lungo termine.

Fig. 2 – I primi 17 produttori di auto al mondo per numero di auto prodotte (fonte Reuters – dati relativi ai primi tre trimestri 2024). Toyota (7,9 milioni) e Volkswagen (6,52) continuano a dominare la scena mondiale, nonostante le difficoltà sul mercato cinese, seguite dalla sudcoreana Hyundai (5,4) e da Stellantis (4,1). Quasi appaiate (3,39 e 3,28) le due storiche statunitensi GM e Ford. La prima cinese – BYD (2,75) – ha superato Nissan (2,5) e appare prossima a superare Honda (2,8), ma la fusione fra Honda e Nissan cambia le carte in tavola. Geely (2,3), Chery (1,75) e Changan (1,58) sono le altre cinesi in crescita, ma non va dimenticato che Tesla (1,29) ha in Cina il 40% della sua capacità produttiva. Le restanti: la giapponese Suzuki (2,45), a un passo da Nissan; le “gemelle” tedesche” Mercedes e BMW (1,8 e 1,75) e la francese Renault (1,64).

Sta partendo la corsa al consolidamento delle grandi imprese tradizionali per mantenersi in gara?

La perdita di quote sul mercato cinese non è stato l’unico problema che ha afflitto le grandi imprese “tradizionali” (“legacy” il termine inglese), che si sono trovate ad esempio nella UE a dover affrontare – a causa del Green Deal lanciato nel 2019 da Ursula von der Leyen – un passaggio all’auto elettrica che presumibilmente si aspettavano di poter rimandare e a dover fronteggiare allo stesso tempo

  • la concorrenza in questo ambito delle auto cinesi: da cui l’imposizione recente di dazi doganali sull’esempio di quelli statunitensi (anche se non così radicali);
  • la riluttanza all’acquisto dei consumatori europei, originata almeno in parte dal forte clima di incertezza sugli obblighi futuri;
  • l’incubo di multe estremamente rilevanti (se ne sta discutendo ora la possibile riduzione o addirittura la temporanea cancellazione) nel caso di non rispetto della quota minima di auto elettriche sul totale di auto vendute prevista dall’UE come un passo sulla via della definitiva messa al bando della vendita di auto a combustione interna.

Volkswagen che vuole per la prima volta chiudere tre stabilimenti in Germania (anche se poi trova un’altra modalità di accordo con i sindacati per ridurre i costi), Porsche che vede cadere le sue vendite del 40 per cento anno su anno nei primi tre trimestri del 2024 e che viene nettamente sopravanzata da Ferrari in Borsa (Fig. 3), Stellantis che dopo anni di profitti vede precipitare le sue vendite (con pesanti riflessi sul nostro Paese) e “licenzia” il suo CEO, sono solo alcuni esempi di una situazione nel complesso difficile.

Fig. 3 – Il calo del 40% nelle vendite fa cadere la capitalizzazione di Porsche, dal suo massimo storico di 117,6 miliardi di $ a metà aprile 2023 ai 56,6 del 20 dicembre 2024. In crescita invece Ferrari, molto più piccola ma molto più focalizzata sul lusso e senza timori (per il fortissimo legame con il territorio) di imposizioni doganali statunitensi, cresciuta di oltre il 50% nello stesso arco di tempo sino a sfiorare gli 80 miliardi di capitalizzazione.

Simile la situazione sul fronte giapponese per quanto riguarda la perdita di quote sul mercato cinese, in particolare per Honda e Nissan (Fig. 4) che stanno valutando una possibile fusione che farebbe nascere – con l’aggregazione anche di Mitsubishi Motor (di cui Nissan è grande azionista) – il terzo gruppo automobilistico del mondo (Fig. 2), alle spalle di Toyota e Volkswagen: fusione oggetto negli ultimi giorni di un ampio e animato dibattito sulla stampa economica internazionale, sui reali vantaggi che tale fusione (che da alcuni è peraltro vista più come un salvataggio di Nissan che come una reale fusione) potrebbe comportare e se sia la scala il vero problema e non piuttosto il ritardo tecnologico rispetto alle giovani e innovative imprese cinesi.

Fig. 4 – Il crollo nel giro di pochi anni delle vendite di Honda e Nissan sul mercato cinese (fonte The Wall Street Journal)

Huawei potrebbe diventare il “fornitore principe” del comparto dell’auto elettrica

“‘A different animal’: inside Huawei’s nascent EV business – Chinese tech giant’s $16bn unit sets sights on becoming big supplier to electric car industry despite US sanctions”, è il titolo di un recente articolo del Financial Times: un articolo che non nasconde la sua ammirazione per un gruppo, che – escluso per sospetto spionaggio dalle forniture di sistemi telecom negli US e in larga misura in Europa e inibito a disporre degli aggiornamenti del sistema operativo Android che usava nei suoi smartphone – è felicemente sopravvissuto

  • continuando a operare nei sistemi telecom in Cina e nei Paesi ove ha mantenuto la possibilità di operare,
  • costruendosi in sostituzione di Android un sistema operativo proprio, di livello a quanto sembra molto elevato, con cui far funzionare i propri smartphone e collocando la sua nuova generazione di smartphone nella fascia alta del mercato, in diretto confronto (a partire dalla Cina) con Apple,
  • è entrato di peso nel comparto dell’auto elettrica, ma con l’obiettivo dichiarato di non volere produrre le auto, ma di diventare il “grande fornitore” delle imprese del settore dell’hardware e del software sempre più necessari per costruire auto che incontrino i favori dei consumatori e che possibilmente siano sempre più a guida autonoma (in gergo “self-driving”).

Come dichiarato recentemente dal chairman Xu Zhijun in una intervista, l’ambizione di Huawei nel settore auto è quella di diventare la “versione cinese di Bosch”, con riferimento al famoso gruppo tedesco operante nella componentistica. Io penso, ma ovviamente le mie sono solo illazioni, che le ambizioni possano essere molto più grandi: in un contesto ove gli spazi per l’innovazione sono ancora estremamente ampi, ma dove anche gli ostacoli da superare – soprattutto per aumentare l’affidabilità della guida autonoma – sono molto ardui, ci sono possibilità di aspirare al ruolo che Microsoft si conquistò nei PC con Windows, rifiutandosi sempre di spingersi a valle in concorrenza con i suoi clienti, o che Alphabet-Google si conquistò con Android nei sistemi operativi per smartphone, entrando solo marginalmente con Motorola nel settore a valle. È interessante notare come, in ambedue gli esempi che ho riportato, Apple abbia rappresentato il competitore da battere sul piano della qualità, ma con un business model integrato verticalmente che ne faceva un competitore dei suoi clienti (con i Mac e l’iPhone) e non un competitore diretto, non essendo in vendita i suoi software e i suoi sistemi operativi. BYD e Tesla, leader mondiali nella vendita di auto elettriche, hanno business model molto più integrati e simili – per rifarmi agli esempi precedenti – a quello di Apple, con due differenze fra loro:

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  • BYD è presente anche nelle batterie (dove peraltro è nata), seconda solo a CATL a livello di innovazioni nel settore, mentre Tesla si è impegnata sin dalla nascita a produrre direttamente nelle sue megafactory le batterie – componenti potenzialmente differenzianti per la loro forte incidenza sui costi totali – ma ricorrendo a tecnologie di terzi:
  • Tesla ha probabilmente una maggiore esperienza nel self-driving, che sin dalla sua nascita è stato presentato come il grande obiettivo e continua a esserlo con l’idea di puntare sui robotaxi, con l’ausilio sempre più forte dell’intelligenza artificiale (ove Elon Musk come noto ha fondato xAI, in concorrenza con OpenAI e Anthropic, nonché con le sussidiarie AI di Alphabet-Google, Microsoft, Meta e Amazon).

Esiste lo spazio per Huawei per diventare il fornitore “principe”? Le capacità dell’impresa e la velocità con cui sta conquistando spazi in Cina ci direbbero di si, con due incognite però:

  • la prima di natura politica, se il bando in larga parte dei Paesi occidentali all’utilizzo di apparati telecom di Huawei verrà esteso o meno anche a tutto quanto riguarda l’auto elettrica, riducendo (soprattutto nel breve-medio termine) gli spazi di crescita;
  • la seconda di natura più industriale, su come evolverà da un lato l’inevitabile processo di consolidamento delle imprese cinesi operanti nell’auto elettrica, troppe e spesso troppo piccole per poter sperare di sopravvivere tutte, e su come evolverà dall’altro il complesso processo di adattamento alla nuova realtà delle imprese “legacy”, che – vincoli politici permettendo – potrebbero cercare di avvalersi di un fornitore di qualità come Huawei per coprire le competenze di cui non dispongono al loro interno (con l’ovvio rischio di ridurre il loro grado di differenziazione sul mercato).

Come potranno reagire le grandi imprese “legacy” a questo quadro?

Lungi da me rispondere in poche righe a una domanda così complessa. C’è solo un punto che voglio evidenziare, come il maggior pericolo – a mio avviso – che le grandi imprese tradizionali possono correre: che l’auto elettrica venga sempre meno vista come un obbligo ambientale, ma piuttosto uno strumento per offrire prestazioni un tempo impensabili a clienti che a quanto pare – soprattutto se giovani – vedono sempre meno l’auto come uno status symbol e sono sempre meno interessati alle cilindrate e ai rombi del motore. Se così fosse, anche se in una prospettiva non immediata, esse si verrebbero a trovare in una situazione molto difficile anche da un punto di vista sociale, come si è visto recentemente nel caso Volkswagen, con esuberanza di personale con competenze obsolete e di infrastrutture destinate al write-off.

Sono possibili innovazioni che evitino scenari di questo tipo? In linea di principio si, anche se solitamente è nel mondo delle startup che si sviluppano più facilmente le idee nuove.



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