Responsabilità sanzionatoria della società, amministratore di fatto e concorso “esterno” nell’illecito

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Con la sentenza n. 23126/2024, la Corte di Cassazione ha chiarito diversi aspetti in merito alla responsabilità sanzionatoria all’interno di una società. Un’analisi dei vari casi: dalle società cartiera alle compagini sociali

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 23126/2024, ha chiarito alcuni rilevanti profili in tema responsabilità sanzionatoria per le violazioni di una società.

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Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate aveva notificato all’amministratore di fatto di una Srl un atto di contestazione sanzioni per violazioni agli obblighi alle dichiarazioni IRES, IRAP ed IVA, nonché per violazioni agli obblighi di tenuta di scritture contabili.

Responsabilità sanzionatoria della società: il caso analizzato

Le contestazioni traevano origine da una verifica eseguita dalla Guardia di Finanza relativamente ai periodi d’imposta 2012/2016, con accertamento di un maggior reddito di 922.929,15 euro.

Poiché nel corso dell’attività di verifica era emerso che il coniuge dell’amministratore formale della società aveva di fatto gestito la stessa società, l’Ufficio ne aveva accertato la responsabilità a titolo di concorso nelle violazioni, ai sensi dell’art. 9, d.lgs. n. 472 del 1997.

Proposto ricorso, la Commissione Tributaria Provinciale annullava l’atto.

Nelle more del detto giudizio l’Agenzia delle Entrate aveva comunque raggiunto un accordo con la società, con il quale era stato rideterminato l’imponibile e conseguentemente ridotta la sanzione.

L’Amministrazione finanziaria appellava la sentenza del giudice di primo grado, ma la Commissione Tributaria Regionale respingeva il gravame, ritenendo che, avendo l’ufficio notificato un avviso d’accertamento nei confronti della società e avendo poi con questa definito i rapporti di credito, con ciò aveva riconosciuto l’esistenza stessa della società e non di un’impresa individuale, essendo pertanto inapplicabile al caso di specie la giurisprudenza secondo la quale la sanzione è applicabile all’amministratore di fatto non in quanto tale, ma quale imprenditore individuale agente dietro il paravento di una società fittizia.

L’Agenzia delle entrate proponeva infine ricorso per cassazione, deducendo, per quanto di interesse, che il giudice di merito aveva errato nel ritenere che la scelta dell’Ufficio di emettere un atto impositivo nei confronti della società, definendo poi con essa i rapporti fiscali e sanzionatori, fosse contraddittoria rispetto alla individuazione dell’amministratore di fatto come imprenditore individuale “mascherato” dietro il paravento sociale.

Al contrario, sosteneva l’Agenzia, correttamente le sanzioni erano state poi comminate a colui che della società era il vero amministratore, ai sensi, appunto, dell’art. 9 del d.lgs. n. 472 del 1997.

L’introduzione dell’art. 7 del d.l 30 settembre 2003, n. 269, rilevava l’Amministrazione, non ha del resto svuotato di contenuto l’ipotesi del concorso nell’illecito fiscale contestato alla compagine sociale, dovendosi ritenere, al contrario, che nel caso dell’amministratore di fatto che abbia utilizzato lo strumento societario – creato artificiosamente – per il perseguimento di vantaggi personali, questi concorre comunque nella violazione ed è destinatario delle sanzioni ai sensi del detto art. 9.

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Secondo la Suprema Corte, tuttavia, la censura era infondata.

Il parere della Cassazione sulla responsabilità sanzionatoria della società

Evidenziano i giudici di legittimità che con l’introduzione dell’art. 7 del d.l. n. 269 cit., secondo cui “le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica” si è posta la questione se tale disciplina, nell’innovare le regole dettate dal d.lgs. n. 472 del 1997, ed in particolare dall’art. 11 – che prima della modifica prevedeva l’obbligo solidale del pagamento della sanzione tra l’ente, la società o l’associazione, nel cui interesse l’autore della violazione aveva agito, e l’autore medesimo – avesse definitivamente escluso l’esigibilità della sanzione nei confronti della persona fisica, identificando esclusivamente nella compagine sociale l’unico soggetto passivo, quando dotato di personalità giuridica.

La giurisprudenza di legittimità ha a tal proposito affermato che il principio secondo cui le sanzioni amministrative relative al rapporto tributario, proprio di società o di enti con personalità giuridica, ex art. 7 del d.l. n. 269 del 2003, sono esclusivamente a carico della persona giuridica, anche quando essa sia gestita da un amministratore di fatto, non opera comunque nell’ipotesi di società cartiera, atteso che, in tal caso, la società è una mera fictio, utilizzata quale schermo per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti tributari commessi a personale vantaggio dell’amministratore di fatto, con la conseguenza che viene meno la ratio che giustifica l’applicazione del suddetto art. 7, diretto a sanzionare la sola società con personalità giuridica, e deve essere invece ripristinata la regola generale secondo cui la sanzione amministrativa pecuniaria colpisce la persona fisica autrice dell’illecito.

Il punto, conclude la Cassazione, riguarda dunque la “decodificazione” della società, se cioè essa sia vera, se abbia vita e finalità economiche distinte da quelle del suo amministratore, oppure se si riveli uno strumento artificioso, cui una persona fisica ricorre proprio per sottrarsi alle sanzioni.

Il che è anche in linea con il dato letterale dell’art. 7 cit., trovando anzi all’interno della norma medesima la sua ratio, ispirata nel sanzionare proprio chi dall’illecita condotta trae vantaggio. Se è la società, ad essa sarà correttamente indirizzata la sanzione, se è la persona fisica, che dietro il paravento della società persegue i propri illeciti vantaggi, la sanzione colpirà chi dell’illecito ne è l’autore, non solo materiale, ma anche giuridico.

Naturalmente, però, sottolinea la Corte, la ratio appena riferita richiede per ciò stesso dei riscontri, ed il primo di essi è proprio il riscontro della “finzione” dell’esistenza della società. Tali riscontri possono essere del resto agevoli, come nel caso della società “cartiera”, della quale ne sia stata accertata l’inesistenza per assenza degli elementi essenziali allo svolgimento dell’attività economica. In ipotesi simili è infatti agevole ritenere che l’amministratore di fatto abbia direttamente incamerato i proventi dell’evasione fiscale addebitabile all’ente.

Vi sono tuttavia però anche ipotesi più complesse, nelle quali la società non è una mera cartiera, ma una compagine sociale che, al più, risulta coinvolta in un giro di operazioni soggettivamente inesistenti; il che, di per sé, non costituisce elemento assorbente per trarre la conclusione che essa sia una mera creazione artificiosa, strumentale all’illecita condotta del vero artefice, ossia la persona fisica che di fatto l’amministra.

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In tali ipotesi, infatti, la società “a valle” dell’operazione soggettivamente simulata, ricevendo le fatture false, può anche aver conseguito un vantaggio fiscale, illecito, ma ciò non esclude la sua vitalità. In questo caso il suo amministratore agisce anzi nell’interesse e a beneficio della società amministrata e la fattispecie rientrerà pertanto proprio nell’alveo dell’art. 7 cit. (cfr., Cass., n. 1946/2023).

Cosa afferma la Cassazione sul concorso “esterno” nell’illecito

Tanto chiarito, afferma la Cassazione, resta da esaminare in che termini si propone il rapporto tra l’art. 7, cit., e l’art. 9 del d.lgs. n. 472 del 1997, che disciplina il tema del concorso con soggetto “esterno” alla società.

A tal proposito la Suprema Corte evidenzia che resta indubbio, per quanto già detto, che dal campo applicativo della sanzione indirizzata alla sola società, dotata di personalità giuridica, esulino tutte le fattispecie nelle quali, che sia l’amministratore di fatto, oppure l’amministratore formale, la società medesima risulti un paravento della persona fisica, che della stessa ne faccia un uso strumentale.

Il passaggio logico successivo è dunque quello di vagliare se l’area applicativa degli artt. 7 del d.l. n. 269 del 2003 e 9 del d.lgs. n. 472 del 1997 possa ritenersi unica, e dunque sovrapponibile, oppure no.

E il collegio ritiene di no. Affermano infatti i giudici che una cosa è l’identificazione del soggetto giuridico cui indirizzare la sanzione (l’ente complesso dotato di personalità giuridica oppure il suo legale rappresentante o l’amministratore di fatto) e altro è invece constatare che alla consumazione dell’illecito possa partecipare un soggetto che rispetto alla commissione della violazione si trovi in posizione “concorrenziale”.

Si tratta di due aspetti ontologicamente distinti, laddove al primo aspetto è rivolta la regola dell’art. 7 cit., e al secondo la regola dell’art. 9 cit.

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L’illecito fiscale cioè, al pari di quello penale, può avere un autore, oppure una pluralità di autori, laddove, come visto, la società dotata di personalità giuridica, per la regola introdotta dall’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003, resta l’unica imputabile.

Ma la condotta illecita può essere anche il frutto di un concorso di condotte plurisoggettive, e, a tal fine, la regola che ne presiede la disciplina non va cercata nell’art. 7, bensì nell’art. 9, che non riguarda dunque il rapporto tra la società e il suo amministratore, ma solo il concorso con altri soggetti nel compimento dell’illecito: soggetti che devono però essere estranei alla compagine sociale.

Alla luce delle suddette considerazioni, e proprio in coerenza alle finalità dell’art. 7 cit., il concorso deve infatti afferire ad un soggetto terzo, a sua volta autonomo centro di imputazione di interessi, a cui sia addebitabile il comune interesse nella condotta illecita, per il perseguimento di suoi “specifici” vantaggi, distinti da quelli della società.

Diversamente, la fattispecie deve necessariamente ricondursi nell’alveo dell’art. 7 del d.l. 269 del 2003.

Pertanto, conclude la Corte, si applica il citato art. 9 quando si tratta di soggetti che non si pongono in posizione di sovraordinazione (come la società con il suo dipendente o con il suo amministratore), o in posizione di collaborazione professionale (come il consulente rispetto alla società committente), ma a soggetti in posizione di equiordinazione, indipendenti e preordinati al perseguimento di benefici mediante condotte illecite.

Si tratta cioè di ipotesi nelle quali il terzo, rispetto alla società, non si pone come soggetto esercente le sue tipiche attività, ma riveste piuttosto altri ruoli, curando le operazioni finalizzate a raggiungere obiettivi illeciti, oppure occupando la posizione del mediatore tra vari soggetti per il raggiungimento di benefici non spettanti, o, ancora, proponendosi come ideatore di operazioni complesse, elusive o evasive.

In tutte le ipotesi elencate, o nelle altre similari, deve riconoscersi il concorso di tale soggetto nelle condotte illecite, addebitabili anche, ma non solo, alla società. In queste ipotesi va quindi riconosciuta anche al terzo la soggettività passiva alle sanzioni, ai sensi del citato art. 9 del d.lgs. n. 472 del 1997.

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Responsabilità sanzionatoria della società, amministratore di fatto e concorso “esterno” nell’illecito: conclusioni

Tutto ciò chiarito, venendo al caso di specie, secondo la Cassazione, il ragionamento seguito dalla CTR era coerente con i principi appena illustrati. L’Agenzia delle entrate infatti si era limitata a costruire un rapporto di sistematica equiparazione tra esistenza di un amministratore di fatto e inesistenza della società, laddove tale corrispondenza è invece del tutto errata, potendovi ben essere un amministratore di fatto al governo di una società pienamente vitale ed esistente.

L’Ufficio, rileva la Corte, indirizzando un accertamento e sanzioni nei confronti della società, e definendo poi con questa il rapporto fiscale e sanzionatorio, ne aveva esplicitamente ed inequivocabilmente riconosciuto la soggettività giuridica, non indicando del resto, anche solo genericamente, gli eventuali interessi autonomi e distinti perseguiti dall’amministratore rispetto alla compagine sociale. Mancavano quindi i presupposti per invocare il concorso ai sensi dell’art. 9 cit., potendo la fattispecie essere ricondotta nell’alveo dell’art. 7 del d.l. 269 del 2003.

Tanto premesso in ordine allo specifico caso processuale, in termini più generali giova anche evidenziare quanto segue.

La riferibilità esclusiva delle sanzioni tributarie alla persona giuridica consente una più adeguata imputazione del carico sanzionatorio nelle strutture societarie complesse, nel cui ambito non avrebbe alcun senso colpire una sola persona fisica che non abbia tratto beneficio dalla condotta illecita: di qui la prevista deroga al regime generale di responsabilità personale, da intendersi però necessariamente circoscritta ai titolari di organi dell’ente contribuente e non passibile di applicazione estensiva, in particolare al caso di concorso esterno.

L’art. 7, al comma 3, cit. fa però salve le disposizioni del Dlgs. n. 472 del 1997 “in quanto compatibili”.

In definitiva, l’ente, soggetto diverso dalla persona è responsabile di un fatto illecito proprio: una responsabilità autonoma, attribuita ad un soggetto metaindividuale, distinto dalla persona fisica autrice del reato presupposto.

In tal senso, ad esempio, come detto, il Dlgs. 231 del 2001 non trova applicazione nei riguardi dell’imprenditore individuale, perché in questo caso non solo non esiste una dualità soggettiva, ma non esiste neppure il soggetto metaindividuale (cfr., Cass., n. 45100/2021).

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