quando il cliente va risarcito per la causa persa

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Il tribunale è per antonomasia il luogo in cui è possibile risolvere le liti tra cittadini e ci si affida a un avvocato per farsi tutelare in giudizio e ambire ad ottenere una sentenza del magistrato, che sia la più aderente possibile alle proprie richieste. Tuttavia non sempre l’attività dei legali fila per il verso giusto.

Nessun lavoratore è una macchina e non lo è neanche l’avvocato che, nell’esercizio delle sue funzioni, può cadere in un errore in grado di danneggiare il proprio cliente. In questi casi si parla di responsabilità professionale e una recente sentenza della Corte di Cassazione – la n. 28903 del mese scorso – ci aiuta a capire quale tipo di tutela è prevista.

Quando il legale può essere considerato responsabile per non aver compiuto una determinata azione o un certo compito? E quando perciò il cliente può chiedere – e ottenere da lui – il risarcimento danni? Scopriamolo di seguito, vedendo in breve i fatti che hanno portato alla sentenza dei giudici di piazza Cavour e quale è stata la motivazione alla decisione.

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Il caso concreto e le conseguenze dell’errore del professionista

Omettere un’attività, ossia non svolgere un compito di primaria importanza a livello professionale può costare caro e specialmente quando – per lavoro – si rappresentano e difendono gli interessi di una persona. Il caso che qui interessa, giunto fino alla Cassazione, riguardava un’avvocatessa che aveva omesso di ottenere una procura speciale per la propria cliente, causando l’inammissibilità di un precedente ricorso presso la stessa Corte.

Un errore formale o tecnico che la cliente voleva far pagare alla professionista, citandola in giudizio con la richiesta di risarcimento danni per responsabilità professionale. La motivazione stava nel fatto che la svista o disattenzione dell’avvocatessa aveva impedito l’esame nel merito del ricorso, portando alla conferma di un provvedimento di confisca dei beni immobili intestati alla cliente stessa, in precedenza emesso dalla corte d’appello.

In altre parole, la richiesta di danni traeva fondamento dall’impugnazione del provvedimento di confisca in Cassazione. Proprio in questa sede l’avvocatessa commise l’errore professionale sopra citato, che non permise di affrontare nel merito i motivi di ricorso proposti dall’avvocatessa, seguendone la definitività del decreto di confisca.

Vero è che, in Cassazione, il ricorso proposto dal marito era stato dichiarato in parte inammissibile e in parte infondato, mentre quello parallelo – proposto dalla moglie intestataria dei beni confiscati – era stato dichiarato inammissibile perché il professionista, come accennato, aveva omesso di farsi rilasciare la procura speciale da parte della donna.

Ne seguì quindi la richiesta in tribunale di risarcimento danni, con un nuovo processo. Si costituì in giudizio l’avvocatessa che, esponendo le sue difese, si oppose alle richieste economiche della cliente. In particolare la professionista sostenne che, anche nel caso il ricorso fosse stato esente da errori e quindi esaminato nel merito, lo stesso non sarebbe stato comunque accolto. Infatti l’atto era fondato sulle stesse argomentazioni sviluppate nel parallelo ricorso del marito.

In primo grado il giudice respinse la richiesta risarcitoria della donna e analogo esito ebbe il giudizio d’appello.

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La decisione della Cassazione e le condizioni per il risarcimento danni

La Suprema Corte ha risolto l’intricata vicenda sottolineando che – in base alla sua giurisprudenza consolidata – la responsabilità professionale dell’avvocato c’è solo in presenza di un rapporto di causalità (già visto recentemente anche in materia ereditaria, di mobbing e in campo condominiale) tra l’inadempimento e il danno subito dal cliente. In parole più semplici il danno patito deve essere stato direttamente causato dall’errore dell’avvocato.

Non a caso nel testo della sentenza n. 28903 si precisa che, per la ricorrente, la corte d’appello:

avrebbe compiuto un’erronea applicazione dei principi sul nesso di causalità nella responsabilità professionale dell’avvocato.

E proprio questa erronea applicazione avrebbe impedito di ottenere il risarcimento danni.

Tuttavia i magistrati di piazza Cavour non si sono discostati dalla linea adottata dai precedenti gradi di giudizio e, in tema di responsabilità professionale dell’avvocato, hanno ribadito che:

la valutazione sull’esistenza di una colpa professionale deve essere compiuta, con un giudizio ex ante, sulla base di una valutazione prognostica della possibile utilità dell’iniziativa intrapresa o omessa, non potendo comunque l’avvocato garantirne l’esito favorevole (viene di frequente richiamata, al riguardo, l’antica e ormai superata distinzione tra obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato). Questo principio è stato affermato per lo più in relazione alla responsabilità omissiva, cioè quando si deve valutare la conseguenza dannosa, per il cliente, derivante da un’attività processuale che poteva essere compiuta e non è stata compiuta (v., tra le altre, la sentenza 24 ottobre 2017, n. 25112, e le recenti ordinanze 19 gennaio 2024, n. 2109, e 6 settembre 2024, n. 24007).

Inoltre, secondo la Cassazione, il suddetto giudizio sulla responsabilità dell’avvocato si deve compiere applicando:

le regole causali in materia di responsabilità civile, secondo il principio del più probabile che non,  in base al quale può ritenersi, in assenza di fattori alternativi, che l’omissione da parte del difensore abbia avuto efficacia causale diretta nella determinazione del danno.

In parole semplici, sia il tribunale che la corte d’appello chiamate a esprimersi sulla richiesta di risarcimento danni hanno ritenuto che – anche se il primo ricorso fosse stato presentato senza sbagli o errori tecnici – sarebbe stato comunque respinto. E questo perché i motivi di impugnazione della cliente erano uguali a quelli del marito, il cui ricorso era già stato respinto, perché in parte inammissibile e in parte infondato.

Ecco perché la Corte di Cassazione non ha riconosciuto il risarcimento danni alla donna, ribadendo anzi che la responsabilità civile dell’avvocato non è un mezzo per punire il colpevole, ma per risarcire i danni in concreto subiti e solo se subiti.

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E in questo caso – come visto – non c’era alcun sostanziale collegamento tra omissione dell’avvocato e esito del procedimento. In altre parole, i giudizi (prognostici) effettuati dal tribunale e dalla corte d’appello hanno sottolineato che non c’era nessuna chance concreta che il ricorso in questione potesse essere accolto. Perciò non c’è stato un danno effettivo derivante dall’errore professionale dell’avvocatessa.

Che cosa cambia

La sentenza n. 28903 è importante – in chiave generale – perché spiega quando il cliente va risarcito per la causa persa e ricorda a tutti che la valutazione della colpa e della responsabilità professionale va fatta tenendo conto di quali sarebbero state le conseguenze, in mancanza di omissione o di sbaglio dell’avvocato. Nel caso qui visto è stato accertato che – anche se il legale avesse avuto una condotta professionale ineccepibile e senza errori – l’esito non sarebbe cambiato e non sarebbe stato comunque favorevole al cliente.

Per questo la responsabilità professionale dell’avvocato va commisurata alla portata delle possibili conseguenze dell’errore omissivo, e non sempre dallo sbaglio può conseguire un risarcimento danni.

La Cassazione ha così colto l’occasione per ricordare a tutti che, secondo la giurisprudenza consolidata, la responsabilità del professionista richiede la presenza del suddetto rapporto di causalità tra l’inadempimento e il danno subito dal cliente. Se non c’è questo rapporto, il legale non potrà essere condannato a pagare i danni.





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