“Per vedermi si arrampicavano sugli alberi”

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Corrado Borroni, protagonista di un exploit nel 1995 su Kafelnikov, si racconta ai microfoni di Fanpage.it, tra passato e presente. In pochi hanno fatto sognare l’Italia del tennis come lui.

Conto e carta

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In un assolato pomeriggio primaverile del 1995, un tennista italiano fino a quel momento sconosciuto, si prese la scena nella suggestiva cornice del Foro Italico. Corrado Borroni, all’epoca numero 411 del ranking ATP, si presentò sulla terra rossa di Roma in punta di piedi, conscio di non avere molto da perdere contro il russo Kafelnikov 9° giocatore al mondo e destinato ad una carriera di altissimo livello.

Capelli lunghissimi, fascia, e un modo di giocare che sembrava proiettato in quello che sarebbe stato il futuro, ovvero offensivo, con un rovescio da “circoletto rosso”. Inizialmente sembrava destinato al ruolo di vittima sacrificale, e invece punto dopo punto, davanti ad un numero di tifosi sempre più in crescita, ecco la magia. Vittoria in rimonta tre set per quello che per tutti era diventato Corrado.

3-6, 7-5, 6-3 ed ecco titoli di giornale, popolarità alle stelle e tutti impazziti per Borroni. Entusiasmo poi cresciuto ulteriormente dopo seconda inaspettata vittoria contro quel Carrettero, diventato per i romani “Caretero”, terraiolo doc. In quel periodo così lontano da quello attuale ricco di successi per l’Italia del tennis, tutti sognavano di aver trovato in questo Carneade classe 1973, l’uomo del destino capace magari chissà di regalare quel titolo che mancava da tanto, troppo tempo. Purtroppo ci pensò Stefan Edberg a far calare il sipario sulla meravigliosa avventura di Borroni in quell’edizione degli Internazionali d’Italia.

Che fine ha fatto Corrado Borroni? Purtroppo gli infortuni gli hanno impedito di spiccare il volo, costringendolo a lasciare anticipatamente la carriera professionistica. Il tennis però è tornato nella sua vita in altra veste, con Borroni che oggi è maestro, e direttore tecnico a Garbagnate. Al suo attivo in passato anche un’esperienza da coach alla guida di Simone Vagnozzi, oggi allenatore di Sinner. Ai microfoni di Fanpage, Corrado si è raccontato tra passato e presente.

Impossibile non tornare sull’exploit di Roma, quante volte ci hai ripensato?
“Mi ricordo benissimo tutti i set. Nel primo ci saranno state poco più di 50 persone, c’erano i miei amici, e il mio staff. Mi ricordo che a qualcuno che mi chiedeva cosa speravo di fare, dissi ‘spero di arrivare il più avanti possibile così poi mi vedranno in televisione’. Questo perché il collegamento iniziava più tardi. Kafelnikov lo conoscevo perché siamo quasi coetanei, lui è del 1974 io del 1973 e ci vedevamo nei tornei minori. Nel periodo post juniores, a 18 anni ero 3 del mondo ma nessuno all’epoca ti conosceva a livello giovanile. Sono rimasto fermo per un periodo di 6 mesi per un problema all’anca, poi ho ricominciato e quando sono arrivato a Roma ero sconosciuto, 400° del mondo”.

Mi ricordo che a poco a poco cresceva la sensazione di poter assistere a qualcosa di speciale e sorprendente.
“Qualcuno è arrivato perché si è sparsa la voce. Infatti il Centrale si è riempito in poco tempo. Per esempio poi hanno avuto la malaugurata idea di farmi giocare il secondo incontro con Carretero sul campo numero 2, dove ci sono le tribunette piccole. Sono campi che vengono usati anche per allenamento. Mi ricordo che c’erano un paio di ragazzi che si erano portati le corda da arrampicata per salire sugli alberi. E nel campo di fianco hanno anche dovuto interrompere il doppio perché dall’altra parte c’era gente che guardava la mia partita e quindi applaudiva disturbando i giocatori”.

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Ti ricordi anche l’entusiasmo del pubblico e quello che ti dicevano?
“Molto probabilmente se avessi avuto i capelli corti qualcuno non si sarebbe nemmeno ricordato di me. Uno dei motivi per cui ho vinto quel match lì è stato anche per il pubblico. Se quella partita l’avessi giocata per esempio a Parigi e non a Roma, forse non l’avrei vinta anche per inesperienza in un torneo così importante.

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Possiamo solo immaginare le emozioni vissute.
“Fare un risultato del genere a Roma davanti al tuo pubblico contro quello che era il numero 5 del mondo… Anche se ci conoscevamo bene e avevamo giocato contro in allenamento. Lui era più abituato a certe partite e palcoscenici. Per chi non l’ha provato è difficile capirlo ma quando lo vivi comprendi che hai una carica in più se i tifosi sono dalla tua parte. Non posso ripetere le cose che mi dicevano perché non mi sembra ancora vero, alcune in romanesco mi facevano venire da ridere. Se avessero potuto stare con me in campo l’avrebbero fatto. Quando entri in sintonia col pubblico puoi lasciarti trascinare da loro, è qualcosa da provare e mi ritengo fortunato perché è troppo bello e in pochi lo vivono”.

Kafelnikov, ex numero uno del mondo e avversario di Borroni

Kafelnikov, ex numero uno del mondo e avversario di Borroni

Cosa ti disse dopo la partita Kafelnikov? Sembrava un po’ provato da quella inaspettata sconfitta.
“Non gli ho dato l’opportunità perché ero talmente felice che dopo la stretta di mano e i complimenti non abbiamo avuto modo di parlarne. Siamo molti simili perché non esprimiamo tutto quello che abbiamo dentro. Ci siamo incontrati l’anno dopo, alla pubblicazione del tabellone di Roma. E ho quando ho visto che da qualificato avrei giocato ancora contro di lui ho pensato ‘ca..o un’altra volta’. Ma credo che abbiamo pensato la stessa cosa a giudicare dalla sua espressione, abbiamo scambiato due chiacchiere e lui mi ha detto: ‘mi raccomando non come l’anno scorso’ e così via. Poi quella volta ha avuto ragione lui”.

Ti sei mai chiesto il motivo per cui, oltre ovviamente il risultato, tu sia stato capace di entrare nel cuore degli italiani?
“Sono una persona molto riservata e introversa, poco commerciale. Mi sono sempre venduto male perché è difficile. Non mi interessa presentarmi come quello che a Roma… Credo che in quel momento ero quel personaggio fuori dagli schemi che ha fatto la sua fortuna con il rovescio lungolinea, da capellone e fan di Vasco Rossi. Ho avuto la fortuna di giocare a Roma e io sono laziale, avevo non dico la curva della Lazio che tifava per me, ma poco ci mancava. Ero un po’ fuori dagli schemi, ho sempre fatto tutto per i cavoli miei, non ho mai avuto nessun tipo di favore dalla Federazione. Ero ‘quello con i capelli lunghi’, forse quello più tennisticamente estroverso di altri”.

Cosa sarebbe successo se Borroni fosse “esploso” oggi ai tempi dei social, quella improvvisa popolarità era difficile da gestire già allora?
“È più complicato gestire adesso la popolarità perché tra i social, televisioni ecc. è tutto più amplificato. All’epoca la gente mi riconosceva per strada, ma se fossi stato più anonimo sarebbe stato difficile farlo. Essendo diciamo estroverso, e più stravagante, allora saltavo più all’occhio della gente. Non è stato complicato gestire la celebrità, anzi all’inizio mi ha fatto piacere. Sicuramente dopo un po’ incomincia a diventare pesante: non hai un minuto di tempo per te, se devi anche uscire incappucciato per non farti vedere”.

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E oggi, come vivi il tuo status?
“Se fossi così popolare oggi di certo non sarei quello che si fa riprendere durante l’allenamento, che fa vedere di lavorare con questo e con quello. Mi interessa poco la visibilità. Non sono mai andato da un giocatore a chiedergli di allenarsi con me. Quello che viene da me lo fa perché sa come lavoro, vuole provare”.

Nella tua bio di Whatsapp si legge “eh già sono ancora qua”. Cosa c’è dietro questa citazione di Vasco Rossi?
“Ho superato la fase del rimuginare dentro il fatto di non aver potuto più giocare a tennis, e del chiedermi cosa avrei potuto fare. Magari sono arrivato al massimo che potevo esprimere oppure forse ero solo all’inizio. Io una mia idea me la sono fatta dopo anni: ‘sono ancora qua’, non solo perché Vasco è sempre Vasco, ma anche per tutta una serie di cose. Per il fatto per esempio che sono passati tanti anni dopo aver smesso per infortunio, con tutte le difficoltà che ci sono state, e perché quando ho smesso ho iniziato subito la carriera del coach. Insomma malgrado tutto sono ancora qua perché mi piace, anche se vedo tutto con un altro occhio. Mi piace stare in campo, anche se ripeto è tutto più complicato”.

E non è proprio scontato che un buon giocatore sia anche un buon coach vero?
“Alla fine quando sei giocatore e trovi qualcuno come coach che ha giocato credi che lui possa aiutarti perché ha fatto quelle cose, ma poi invece ti rendi conto che non è detto. Se sei stato giocatore puoi conoscere certe dinamiche, ma non è vero che tu possa dire poi le cose corrette. Quello si acquisisce con l’esperienza, con l’informarsi, il chiedere, il vedere, l’osservare, tutta una serie di cose. Adesso le dinamiche sono che appena un ragazzo appena smette da ottimo giocatore, deve subito fare il coach. C’è entusiasmo ma ci devono essere tante altre cose”.

Quali sono stati gli aspetti più difficili su cui lavorare da coach dei giocatori?
“Ho imparato a conoscere i giocatori, l’ultimo che ho allenato è stato Vagnozzi, e ho capito che non sono tutti uguali. C’è chi ha bisogno di scosse, chi di carezze, ad uno devi parlare in un modo, ad un altro nell’altro e così via. Invece all’inizio cerchi di insegnare le cose come se lo facessi a te stesso ed è la cosa meno corretta. Tutto si acquisisce anche con l’esperienza: s’impara ad ascoltare i giocatori e gli allievi. Non sei un automa o un operaio che avvita tutti gli stessi bulloni. Le dinamiche cambiano, quindi nel corso degli anni, con le evoluzioni malgrado tutto sono ancora qua, malgrado gli infortuni, le difficoltà anche degli spostamenti della famiglia, dei pensieri quando lavori”.

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Che giocatore era Simone Vagnozzi, avresti immaginato per lui una carriera di successo?
“Vagnozzi coach è molto più attento e preparato anche per l’età che gli ha permesso di maturare. Non che da giocatore non lo fosse, ma era consapevole di tante dinamiche che per lui erano complicate. Tante volte diceva ‘non riesco a fare punti con il servizio’, non è che si poteva pretendere che servisse a 200 all’ora. Però quando ha iniziato a fare il coach era consapevole di avere più armi, più modi di esprimere quello che magari giocando diventava complicato”.

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La sua carriera è stata infatti un crescendo da allenatore.
“Sicuramente già con Cecchinato ha fatto un ottimo lavoro, poi anche prima con Quinzi. Doveva imparare certe cose e certamente si è applicato. Lui è uno molto attento ai dettagli e ai particolari. Anche quando giocava. Per lui era molto più importante la parte tattica rispetto a quella tecnica perché doveva cercare di fare qualcosa in più rispetto agli altri. Se uno tirava due mattonate di servizio da giocatore per lui era più complicato. È stato sotto questo punto di vista più attento”.

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Che effetto fa vederlo oggi sul tetto del mondo con Jannik Sinner?
“È stato molto bravo a gestire con Sinner quella che all’inizio era la parte mediatica: erano tutti pronti a crocifiggerlo, noi ci sentivamo e gli ho sempre detto di credere in quello che stava facendo, andando avanti punto e basta. So che è complicato perché stai sotto i riflettori col fucile puntato e gli dicevo che in mano aveva quello che sarebbe potuto diventare il numero uno del mondo. Le cose sono andate bene ma io non ero scettico anche perché hanno avuto la fortuna di trovarsi subito, con una grande complicità tra di loro. Quella tra coach e giocatore è fondamentale a prescindere dal dirsi le cose giuste o sbagliate. Quando c’è intesa, questa è l’arma vincente. Poi ci devono essere anche le competenze, e le direttive devono essere quelle corrette”.

Ti senti ancora con Simone, magari vi scambiate delle dritte?
“Parlavamo anche di quello che dicevano i giornalisti sul come avesse fatto a passare da Piatti a Vagnozzi, perché gli faceva fare le smorzate o le volée e così via. Non è che io gli abbia detto cosa fare, ma noi prima ci sentivamo spesso perché lui quando ha iniziato questo lavoro aveva bisogno di sentirsi dire certe cose. Però quello che ci siamo sempre detti è stato che ‘io ho imparato che se ho quell’idea lì, e penso che sia la cosa migliore, vado avanti’. Allenare Sinner, dico una cosa che magari è una banalità, credo sia semplice perché è un giocatore che butta giù la testa e fa le cose fino a quando ce la fa. Sicuramente non è uno capriccioso, e dice che non ce la fa più. È un lavoratore che ha il suo obiettivo chiaro in testa e non si scappa. Non vedo ostacoli, ogni giorno è un giorno buono per migliorarsi e continuare a lavorare. E gli ostacoli a prescindere dal tempo che ci mette, prima o poi li supera”.

Cosa fa oggi Corrado Borroni e lo rivedremo spesso al lavoro con un altro tennista?
“Ho fatto il coach fino al 2013 e il mio ultimo giocatore è stato Vagnozzi. Poi c’è stato un periodo di sedentarietà, e ho voluto fermarmi un po’ per lavorare come ‘maestro di circolo’. Non ho preso la decisione di fare un’accademia, lavorando in campo con le lezioni private e la scuola tennis stabilizzandomi anche un po’. Ora faccio il direttore tecnico a Garbagnate, e questa società è in via di espansione. Affianco i miei maestri, e mi occupo anche della parte sociale e organizzativa perché mi piace. Voglio riportare questi circoli a quello che un tempo erano i vecchi club. Poi sono alla finestra e pur essendo un po’ fuori dal giro, sono pronto a valutare eventuali richieste da coach anche se non le cerco. Se mi si presenta qualcosa di formativo ci penserò”.

Cosa pensi di questo boom del tennis, e della Sinner-Mania?
“Tutti vogliono giocare, tutti sono forti e tutti sono bravi. Sta diventando un po’ come nel calcio, e non mi piace tanto. La Sinner-mania, ma non solo quello, visto che già da prima c’era affluenza in tutti gli sport di racchetta, va bene ma ha portato anche a situazioni come quelle nel calcio quando tutti erano bravi praticamente. Ora sono tutti bravi nel tennis. C’è questa tendenza a voler tutto e subito. Tutti vogliono tutto, lo vogliono far bene, negli orari che vogliono loro e quando dicono loro. Da quando ho iniziato a fare questo lavoro, e ho smesso di fare il professionista a 23 anni, sta diventando sempre più complicato insegnare”.





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