L’intervista a inizio dicembre all’Eco del Chisone ad Alessandro Giacoletto: «Mia figlia mi diceva: “Sarebbe meglio il cancro: quello potrei toglierlo, questo no”. Fu un “omicidio psichico”».
Ripubblichiamo per gentile concessione dell’Eco del Chisone di Pinerolo l’intervista integrale al padre di Chiara Giacoletto, Alessandro. L’uomo è morto il 9 dicembre, a pochi giorni di distanza dalla moglie, per le conseguenze di un tentativo di suicidio nella loro casa, non reggevano la memoria della figlia suicida dopo un abuso subito anni prima.
ORBASSANO – Chiara è andata via. L’ha fatto in una gelida sera d’inverno. Con un viaggio di sola andata ha deciso, in silenzio, di non tornare indietro. Sopraffatta da un peso troppo grande, ha aspettato che i suoi genitori uscissero a cena con dei loro amici per mettere in atto quanto aveva progettato. Ha assunto degli psicofarmaci e si è tolta la vita impiccandosi ad un termosifone a parete. In casa ha lasciato cinque lettere, destinate alle persone a lei care, chiedendo loro scusa per il suo gesto. Aveva solo 28 anni, un sorriso radioso e un amore per la montagna che la portava a scalare vette e rincorrere sogni.
Chiara non c’è più. È morta il 4 febbraio di due anni fa. Domenica scorsa avrebbe compiuto 31 anni. Era figlia unica. E chi è rimasto, ancora oggi non si dà pace. Suo papà Alessandro Giacoletto è un medico stimato, molto conosciuto a Orbassano. La mamma Cristina, prima del dramma che ha sconvolto le loro esistenze, faceva la farmacista in strada Volvera.
A pochi giorni dalla Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, Giacoletto racconta la tragedia che ha distrutto la sua famiglia.
E non si rassegna a considerare quello di Chiara un suicidio: «Oltre ai terribili casi che la cronaca ci espone a ritmo impressionante e che tutti conoscono e condannano – dice – esiste un mondo sommerso di situazioni esistenziali meno visibili, ma infinitamente più vasto. Mi riferisco alle donne che subiscono molestie o abusi in età infantile o adolescenziale, talora in contesti di degrado, talora all’interno di famiglie cosiddette “normali”. L’esperienza ci insegna che, fino a quando non si subisce in modo diretto un dramma, non è possibile comprenderne sino in fondo la profondità o l’intensità».
Chiara ha deciso di farla finita al termine di una giornata apparentemente “normale”. A detta di papà Alessandro, somigliava molto – anche fisicamente – a Giulia Cecchettin, studentessa 22enne uccisa poco più di un anno fa dalle mani assassine del suo ex fidanzato. «Stesso sorriso solare, altrettanto bella e sognatrice». Amante dello studio e della letteratura, dopo una infanzia ed una adolescenza apparentemente “normali”, il suo malessere venne fuori solo nel 2016 alla età di 23 anni, quando la ragazza stava frequentando la facoltà di Medicina.
«Venne alla luce con attacchi di panico, ansia, insonnia, incubi. Chiese aiuto. Venne supportata inizialmente da una brava psicologa, poi da un ottimo psicoterapeuta con la collaborazione di uno psichiatra del servizio pubblico e poi ancora da un’altra psicoterapeuta molto brava con cui Chiara aveva un rapporto di amicizia», ricorda il genitore.
La giovane aveva trovato ascolto e conforto ma non era stata in grado di rompere completamente il muro del silenzio. E dietro il suo sorriso nascondeva un dolore antico, un grido soffocato che non riusciva a emergere. Le parole non dette l’hanno divorata dentro.
Per anni, i suoi genitori hanno cercato di comprendere, di aiutare, di salvarla. Ma quel dolore, radicato in un’infanzia violata, era un abisso troppo profondo. Solo nel 2018 i suoi genitori avevano scoperto l’entità del suo dramma, leggendo un diario lasciato aperto quasi per caso. Una volta confidò a suo padre quel tarlo che le divorava l’anima: «Sarebbe meglio il cancro: quello potrei toglierlo, questo no».
Da allora iniziò un calvario comune a tante famiglie, alla rincorsa di una speranza di riscatto e di salvezza. Chiara era stata vittima di molestie da bambina. L’aguzzino? Una figura familiare, una persona apparentemente insospettabile, un uomo che raccontava con leggerezza le sue vicende passate, ignorando il male che portava dentro e le violenze subite che aveva riversato su una bambina indifesa. «Come emerge dalle parole di Chiara e dalle testimonianze dei professionisti che l’hanno avuta in terapia, il responsabile era un parente insospettabile, che viveva con noi a Pasta di Rivalta, morto anni fa per un tumore ai polmoni». Come troppo spesso accade, il trauma era rimasto nascosto, sepolto sotto strati di vergogna, ricatti emotivi e paura. E quando il dolore era finalmente emerso, aveva già eroso troppo.
Dopo il dramma di quella tragica notte di quasi tre anni fa, la
famiglia Giacoletto ha deciso di vendere la propria quota della
farmacia di Orbassano e devolvere il ricavato in beneficenza, anche
per aiutare i bambini in Etiopia. Di fronte a una tragedia così
grande, hanno scoperto non solo l’affetto di tante persone ma anche
numerose dolorose narrazioni: «Storie mai raccontate fatte di silenzio e di dolore. Parole non dette che fanno parte di questo infinito mondo sommerso. Oggi vorrei dare voce a queste vicende. Suicidio è, in questi casi, un termine inesatto. Chi pone fine alla sua vita a causa di una violenza è vittima di un “omicidio psichico” e il suo aguzzino è un assassino. Ancora oggi, se il reato di abuso o molestia contro un minore è antecedente di dieci anni alla denuncia o al ricordo del fatto, questo cade in prescrizione e il responsabile non è perseguibile».
Lo scorso anno i coniugi Giacoletto sono stati invitati alla sede di Emergency a Milano a sostenere una petizione europea per rendere giustizia ai sopravvissuti alle molestie subite in età infantile e adolescenziale. “Justice Initiative”, si chiama così la raccolta firme sostenuta dalla Fondazione Guido Fluri con la partecipazione delle “Rete l’Abuso” fondata da Francesco Zanardi, promossa per potenziare la difesa dei minori vittime di abusi. In quell’occasione il fotografo e psicologo Simone Padovani ha presentato la sua mostra itinerante “Shame European Stories”, una rassegna di 60 scatti in bianco e nero con i volti e i racconti di sopravvissuti: tra le immagini, anche quelle di Alessandro e Cristina, gli unici due genitori che hanno avuto il coraggio di affrontare pubblicamente un’esperienza estremamente dolorosa e dare voce a chi non c’è più.
«Quando a una farfalla si toccano le ali, smette di volare», dicono.
Oggi loro due si sentono delle “ombre” che hanno smesso di vivere quella sera di febbraio. Ma il loro desiderio è che a nessun’altra farfalla venga impedito di librarsi in cielo. E che il dolore possa trovare parole e salvare altre vite. Chiara non c’è più, ma la sua storia è un grido potente che non può passare inosservato.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link