“Il Medio Oriente spera in Trump per la stabilità”, un Natale in guerra. L’intervista a Fra Patton (custode di Terra Santa): “Ci si deve guardare come persone umane”

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TRENTO. I negoziati in Ucraina e in Israele che non sembrano concretizzarsi, la Siria del dopo Bashar al-Assad, il ruolo dell’Unione europea nei conflitti e l’ormai imminente insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. E’ un periodo di cambiamenti e di grandi incertezze. Un Natale caratterizzato, ancora una volta, dalle guerre. Ma la speranza deve essere ancora più forte, soprattutto quando tutto va male. 

 

“In questo anno giubilare abbiamo più che mai bisogno di speranza”. Queste le parole a il Dolomiti di Fra Francesco PattonCustode di Terra Santa a Gerusalemme. “Mi allaccio a San Paolo in due modi. La speranza non delude mai, questo passaggio è stato citato anche da Papa Francesco nella bolla: questo valore ha sempre un fondamento solido e non è solo un vago desiderio”. 

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E poi un passaggio ancora più impegnativo. “Ancora più vero, soprattutto qui in Terra Santa”, aggiunge Patton. “Bisogna sperare anche contro ogni speranza. Non basta sperare quando le cose vanno bene, ma è necessario tenere viva la speranza quando tutto sembra andare male. E’ questo quello che facciamo noi e anche i cristiani a Gaza: la speranza è che la guerra finisca presto e che arrivi, per tutti, il tempo della pace”.

 

La situazione resta complessa sui fronti alle porte dell’Europa. Si combatte ancora in Ucraina e in Medio Oriente. Un quadro geopolitico sempre più complesso: gli equilibri si sono rotti e c’è stato anche il rapido rovesciamento del regime di al-Assad. 

 

Si parla molto di negoziati ma purtroppo non sembrano esserci progressi concreti verso un cessate il fuoco in Ucraina e in Palestina.

Questo è vero ma in realtà dobbiamo ricordare che le negoziazioni e le trattative avvengono dietro le quinte. La mia speranza è che i negoziati vadano a buon fine, soprattutto qui in Terra Santa: questo significa la liberazione degli ostaggi ma anche dei prigionieri. La speranza è di andare verso una soluzione politica di questo conflitto.

 

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A 14 mesi dalle atrocità di Hamas e l’inizio della guerra come è la situazione?

A distanza di più di un anno la situazione è naturalmente vissuta in modo diverso a seconda dei territori. A Gaza ci sono ancora degli ostaggi nei cunicoli che aspettano di essere liberati e che temono che questo non avvenga più. La popolazione spera che finiscano i bombardamenti e di sopravvivere per poi avviare la ricostruzione dell’ambiente in cui sono nati e cresciuti.

In Cisgiordania invece si vuole che a Betlemme la guerra finisca per poter accogliere nuovamente i pellegrini e ritornare a lavorare. Nelle cittadine c’è l’esigenza di più sicurezza e che venga messo un freno a coloni nazionalisti e fondamentalisti che aggrediscono anche i civili dei villaggi. Non è in definitiva facile dare una risposta.

 

E come viene vissuto il rovesciamento del regime siriano?

Con attenzione e con prudenza: ovviamente bisogna aspettare l’evoluzione di quanto avvenuto nelle scorse settimane, anche per capire se il leader Mohammed al-Bashir sia in grado di tenere sotto controllo gli estremisti e se davvero ci sarà il rispetto della volontà di un proporre un governo inclusivo delle minoranze etniche e religiose. E poi c’è il problema delle donne e della sharia. 

 

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Un altro passaggio importante riguarda le elezioni per la costituente e l’elaborazione della costituzione. Insomma, c’è aspettativa e prudenza perché ci vogliono altri mesi per raggiungere una stabilità e ancora di più per capire quale sarà la nuova Siria. 

 

I governi di Francia e Germania sembrano deboli e in difficoltà. Negli Stati Uniti c’è stata la vittoria di Trump. Quali rischi vede in queste scenario geopolitico così incerto e complesso?

Non solo i governi di Francia e Germania sono deboli, c’è una difficoltà generale che riguarda l’Unione europea che non ha trovato una configurazione politica: gli Stati si muovono spesso singolarmente e questo non è un bene in questo contesto globale. 

 

In Medio Oriente la vittoria di Trump è percepita in modo positivo in Israele, nei Paesi Arabi e in Palestina in quanto vedono nel presidente americano la persona che può imporsi in questa situazione fluida e confusa. Più che i rischi, qui si vedono le possibilità di una maggior stabilizzazione dell’intera area e l’opportunità di portare a conclusione gli accordi di Abramo e risolvere la questione politica palestinese, una raod map per arrivare alla costruzione di uno Stato. 

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Le guerre, purtroppo, ci sono sempre state ma questo è un Natale con conflitti alle porte dell’Europa. Una riflessione su questo momento difficile nell’anno giubilare dedicato alla speranza?

E’ vero, ci sono purtroppo sempre stati i conflitti. Ma ricordo che nel 1914 durante la Prima Guerra Mondiale nella notte di Natale francesi, inglese e tedeschi hanno sospeso i combattimenti per festeggiare insieme. La conseguenza è stata che quei reggimenti che hanno fraternizzato sono stati sostituiti al fronte. Questa è la potenza del Natale e significa che per gli stessi soldati, se si guardano non come combattenti ma come persone umane, risulta difficile usare la violenza e spararsi. 

 

Ci vorrebbe un altro miracolo di Natale: ci si dovrebbe guardare come persone umane, anche i civili, per sollevare il dito dal grilletto. Abbiamo bisogno di speranza, oggi più che mai.





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