La missione senza fine di Antonella Bertolotti, psichiatra di guerra. «Non c’è tempo per la paura quando ti metti in ascolto»

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Non basta commuoversi. Bisogna muoversi. Ossia girare il mondo e provarlo a cambiare per davvero, partendo dalla forza delle relazioni che vince sulle prevaricazioni. Nel giorno di Natale la storia di una dottoressa startupper che ha scelta di non fermarsi mai. «Ma il vero coraggio non è il mio, semmai è quello di chi non sa nulla del proprio futuro e decide comunque di mettersi in viaggio»

«Ci risentiamo più tardi? Sto facendo le visite domiciliari per i miei pazienti». Ti risponde così al telefono, cortese e trafelata. Non la vedi in volto, ma dalla voce riesci a cogliere subito il suo sorriso, la sua energia contagiosa, quell’irrefrenabile voglia di darsi da fare. Anche nella Vigilia di Natale che ci vede tutti trafelati nel fare regali tra fiocchi e pacchi di ogni tipo. E invece lei no. Lei è lì in strada a macinare chilometri, a provare a cambiare il mondo, anche quello sotto casa, un sorriso alla volta. Perché la dottoressa Antonella Bertolotti – bresciana classe 1960, medico psichiatra e scrittrice, co-fondatrice nel 1999 di Intermed Onlus, in tasca una laurea in medicina e una specializzazione in psichiatria – anche oggi è in giro per lavoro. E anche oggi, come sempre, impegnata a fianco di coloro che soffrono. Siamo a Bagolino, cittadina bellissima – così lei stessa la descrive – con poco meno di quattromila anime a settecento metri di altezza, in quella verdissima provincia bresciana già piagata negli anni passati dall’emergenza della pandemia. Siamo sul versante sinistro della valle del Caffaro, alle pendici del Monte Carena, nella comunità montana della Valle Sabbia. «Ma io ho pazienti dappertutto e qui a Bagolino ho un ambulatorio. Qui c’è anche una RSA con persone malate di Alzheimer», dice Bertolotti.

Costruire per migliorare

Come psichiatra di guerra, Antonella Bertolotti ha girato e continua a girare il mondo nelle zone più estreme in Africa, Siria, Pakistan, Madagascar, India, Haiti, Romania, Nepal. «Ho sempre voluto fare cooperazione internazionale. All’epoca, quando avevo trent’anni, era in atto il genocidio in Ruanda e sono andata lì per darmi da fare. Ho continuato a fare progetti umanitari di emergenza e di sviluppo, dal Kosovo alla Siria e poi con i medici palestinesi a Betlemme. Ma anche per aiutare le persone nel post-trauma legato ai terremoti come quello ad Haiti o in Nepal e anche ad Amatrice. A Kathmandu, insieme alle suore del San Camillo lì in missione, ho fatto il medico per aiutare a creare delle strutture. Si trattava di aprire dei centri di salute facendo formazione al personale», precisa Bertotti. E dalle sue parole esce fuori anche la sua anima da startupper. Costruire per migliore le aree di guerra, partendo dalla cosa più preziosa: le persone. «L’idea è sempre stata quella di creare una cooperazione, ma nel vero senso della parola. Ossia lavorare insieme con un’alleanza trasversale tra più figure professionali, unendo medici, muratori, idraulici, infermieri e persino fornai. Sono tutti necessari perché in Africa e precisamente in Congo la maggior parte delle donne è impegnata ad accudire la famiglia e così anche creare il forno permette di diventare un punto di aggregazione. Le donne acquistano il pane e riescono ad emanciparsi dopo le vessazioni della guerra civile durata venticinque anni. Ecco l’importanza del forno inteso come punto di ritrovo dove scambiarsi idee, confrontarsi sulla propria vita, ritrovare la forza smarrita», dice Bertolotti.

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Foto 2 un nuovo pozzo in Burkina Faso

Il corpo e la mente

Le ferite fisiche e le ferite psicologiche, che fanno male e che si cicatrizzano solo col tempo. Tanto tempo e tanto ascolto. «In Ucraina abbiamo lavorato in vari ospedali. Certo, ci sono le ferite fisiche, ma quelle psicologiche non si rimarginano facilmente. Penso a quei bambini che ho visto con la fame di luce dopo settimane e settimane al buio. Se vivi per tanto tempo in un bunker tornare alla luce, anche a fare attività normalissime o semplicemente a giocare, è impegnativo. Ecco perché con la nostra fondazione abbiamo persone che fanno terapia con la danza, con l’arte, con la musica, accompagnando le persone in un lungo percorso per far uscire il trauma. Ritornare alla normalità diventa difficile. Il recupero della relazione è un punto focale della terapia», dice Bertolotti.

Foto 3 Antonella Bertolotti insieme a Cristian Fracassi e a Giampaolo Colletti nel laboratorio dove nascono le protesi low tech

Oggi Intermed ha vari ambulatori nell’Africa sub sahariana per curare le piaghe fisiche si usa l’ozono, che è una delle armi a disposizione accanto alla psichiatria che permette di trattare i pazienti in modo olistico, globale. «L’ozono serve per curare le ferite grazie all’ossigeno-ozonoterapia perché le tratta facilitando la cicatrizzazione. Poi per le terapie della mente c’è l’ascolto.  Oggi c’è una maggior sensibilità per queste problematiche psicologiche. D’altronde noi a Brescia siamo stati coinvolti in prima persona nell’emergenza Covid-19. I traumi psicologici successivi si sono visti nei bambini abituati ad una vita di relazione che poi sono stati costretti a interrompere le loro interazioni amicali o a sacrificare il gioco», ricorda Bertolotti. Lei ha avuto l’idea di contattare Cristian Fracassi, fondatore e CEO di Isinnova e più volte raccontato sulle nostre pagine di StartupItalia, per suggerire di costruire protesi low-tech, ossia ad alto impatto e a basso costo per aiutare le persone in zone di guerra colpite agli arti. 

Foto 4 La barca distrutta a Lampedusa

Non commuoversi, ma muoversi

Antonella Bertolotti ha scritto anche un libro che parte da una sua missione sul campo. Una delle tante. Si chiama “Il bosco blu”. «In questo caso ero a Lampedusa per i rifugiati. Abbiamo visto una barca in cima alla scogliera completamente danneggiata e tante persone che hanno perso la vita. Ho dipinto questa barca anche in un mio acquerello. C’era il vento che la attraversava e sembrava di sentire le urla delle persone. Il coraggio è quello di chi decide di lasciare la propria terra per affrontare l’incognita di un viaggio. Sono sempre stata molto fortunata. Sono sempre stata amata, sostenuta, protetta. In Siria ho lavorato con colleghi e con soldati che mi hanno sempre indicato la via giusta da seguire. In Ucraina, mentre lavoravamo in ospedale, eravamo alloggiati a casa di una famiglia e sentivamo i razzi che cadevano vicino a noi. Ecco, quello metteva ansia ma non avevi tempo per la paura. Perché se il pericolo c’è sempre, si è talmente presi dal tipo di lavoro che si fa che la paura la metti in secondo piano. Quello che conta sono le relazioni che sai costruire. In fondo le persone intorno a noi mi hanno sempre aiutato a non avere paura», dice Bertolotti. La prossima missione? Col nuovo anno in Benin, paese nell’Africa occidentale. Qui si sta realizzando un reparto di maternità. Ma intanto domani (oggi per chi legge, ossia il giorno di Natale), altri medici e volontari partono per l’Ucraina. Lo ripete come un mantra Antonella Bertolotti: non dobbiamo solo commuoverci, dobbiamo muoverci.





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