Il Natale offre un po’ di tempo per riflettere e nell’assai diversificato scenario in cui ci troviamo a vivere, ciò è ancora più prezioso. Con gratitudine, abbiamo la possibilità di intervistare il leader del Partito popolare serbo, Jovalan Palalic, da tempo amico e autorevole firma del FarodiRoma e della sua edizione francese, PlaceStPierre.
La Serbia è un Paese che può svolgere un ruolo importante per il dialogo: le crisi globali, a partire dal conflitto ucraino, rischiano di deflagrare: come è possibile, a suo giudizio, raggiungere la pace?
Il mio Paese, la Serbia, fin dall’inizio del conflitto in Ucraina, si è impegnata fermamente per una cessazione immediata delle ostilità e per una pace giusta e sostenibile tra le parti in conflitto.
Abbiamo condannato inequivocabilmente la guerra e la violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina, sostenendo con forza il rispetto del diritto internazionale.
Noi, come nazione, siamo stati vittime di aggressioni e bombardamenti, volti a sottrarci una parte del nostro territorio riconosciuto a livello internazionale, il Kosovo.
D’altra parte, riteniamo che l’imposizione di sanzioni agli Stati, come strumento di politica estera, non produca mai gli effetti desiderati. Questo lo abbiamo vissuto come nazione per un intero decennio: il popolo soffriva, mentre il potere si arricchiva. Inoltre, data l’interconnessione economica tra Europa e Russia, è evidente che molte nazioni, le loro economie e numerosi imprenditori soffrono a causa di tale politica sanzionatoria.
Grazie alla nostra posizione chiara, la Serbia ha mantenuto buone relazioni, anche in questi tempi complessi e difficili, sia con la Russia che con l’Ucraina.
Seguendo principi chiari, possiamo, come Stato, contribuire all’avvio di negoziati di pace, che devono basarsi sul rigoroso rispetto del diritto internazionale. Tuttavia, la guerra ha cambiato la realtà, e per una pace sostenibile, tali cambiamenti devono essere presi in considerazione.
Nell’applicazione pratica di questi due approcci, bisogna cercare soluzioni alle complesse questioni della sicurezza europea, ma anche di quella russa, del futuro dell’Ucraina in Europa e delle sue relazioni con la NATO, dello status dei territori orientali, della posizione della popolazione russofona e del suo diritto alla lingua, cultura e religione, nonché dello status della Chiesa Ortodossa e dei suoi templi in quel Paese.
Inoltre, è importante definire il futuro delle relazioni tra Europa e Russia e delle sanzioni imposte, che influenzano anche i complessi rapporti tra Occidente e Cina.
Senza la risoluzione di queste complesse questioni, a mio parere, una pace duratura e sostenibile non sarà possibile.
Il più grande errore sarebbe mantenere il focus esclusivamente sulla questione dei territori nei futuri negoziati, trascurando gli altri importanti aspetti di questo conflitto complesso.
Nell’alveo di confitti così complessi, anche la dimensione religiosa, nonché ecclesiastica, tende a subire inopportune strumentalizzazioni. Lei, che segue così da vicino questi temi, cosa ci può dire a riguardo?
Come ho già accennato, non vedo la possibilità di raggiungere una pace sostenibile in Ucraina senza affrontare la complessa questione ecclesiastica.
In una regione ora in fiamme a causa della guerra, abbiamo attualmente intrecciati e in conflitto gli interessi di tre delle più importanti Chiese cristiane: la Chiesa Cattolica, la Chiesa Ortodossa Russa e il Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli. Oltre alla complessità storica delle loro relazioni, nelle questioni ecclesiastiche ucraine si sono intromessi anche gli Stati, vedendo in questa disputa un mezzo per perseguire i loro interessi particolari nel conflitto ucraino.
Va detto apertamente che il problema è stato creato, da un lato, dal Patriarca Bartolomeo, il quale, chiaramente sotto l’influenza di alcune potenti nazioni coinvolte nel conflitto, ha concesso in modo non canonico l’autocefalia a una parte della Chiesa Ortodossa Ucraina del Patriarcato di Mosca; dall’altro lato, il problema è stato aggravato dal governo ucraino, che ha emanato leggi che di fatto vietano la presenza della Chiesa Ortodossa Russa in Ucraina.
In un clima così teso, un messaggio di ragione è stato l’appello di Papa Francesco nella sua ormai celebre dichiarazione: “Non toccate le Chiese”. Da un lato, questo rappresentava una posizione di principio, affermando che ogni persona ha il diritto di credere in Dio come desidera e di frequentare il luogo di culto che sceglie; dall’altro, era un invito alla Chiesa Russa a dialogare sulla questione ecclesiastica ucraina.
Ritengo che sia estremamente importante comprendere che la questione ecclesiastica in Ucraina non è solo una condizione necessaria per una pace duratura, ma anche una prova per il ripristino della fiducia tra la Chiesa Ortodossa e quella Cattolica. Dal dialogo su questa questione potrebbe dipendere in larga misura il futuro del cristianesimo in Europa, che non può affrontare la menzionata lotta per il recupero dell’immagine di Dio nell’uomo operando solo con uno dei suoi “polmoni”, sia esso orientale o occidentale.
Per questo, credo che l’approccio corretto in questo dialogo, che riguarda principalmente Mosca e Roma, dovrebbe consistere nel costruire una visione più ampia e obiettivi comuni a lungo termine, piuttosto che perseguire a tutti i costi gli interessi particolari di una o dell’altra Chiesa su una parte del territorio ucraino.
È evidente che nessun interesse specifico di una singola Chiesa potrà essere pienamente soddisfatto. Se è così, allora il dialogo ecclesiastico, che deve iniziare il prima possibile, dovrebbe porre al primo posto l’interesse generale del cristianesimo in Europa, piuttosto che concentrarsi su chi ha più fedeli o su chi possiede più luoghi di culto.
Se il punto di partenza per una soluzione politica alla guerra in Ucraina è il rispetto del diritto internazionale, allora per risolvere le questioni ecclesiastiche in Ucraina il punto di partenza dovrebbe essere il diritto canonico, che definisce la struttura della Chiesa Ortodossa, il diritto di proprietà e il diritto di ogni cittadino alla libera professione della propria fede.
Su queste basi, tutte le Chiese potrebbero dare un contributo significativo alla pace in quel Paese e stabilire i fondamenti per lo sviluppo delle loro relazioni reciproche, che in futuro potrebbero portare a una maggiore unità del cristianesimo.
La Serbia sta approfondendo rapporti amichevoli con la Santa sede: ci può descrivere questo processo?
La Serbia, la Chiesa Ortodossa Serba e la Santa Sede hanno intensificato il loro dialogo negli ultimi anni, come evidente da una serie di punti molto concreti. I messaggi provenienti da Roma, in particolare il non riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, il rispetto delle posizioni della Chiesa Ortodossa Serba riguardo alla controversa canonizzazione del cardinale croato Alojzije Stepinac durante la Seconda Guerra Mondiale, e, per la prima volta, la nomina di un cardinale in Serbia, hanno trovato terreno fertile a Belgrado, soprattutto presso il nuovo Patriarca della Chiesa Ortodossa Serba, Porfirio, desideroso di dialogo e scambio di opinioni su tutte le questioni che riguardano i rapporti tra la Chiesa Ortodossa e quella Cattolica.
Vi è anche un forte bisogno di trovare uno spazio d’azione verso la pace, sia in Ucraina che nei Balcani. Poiché la Chiesa Ortodossa Serba gode di grande stima all’interno del mondo ortodosso, mantenendo buoni rapporti con tutte le Chiese autocefale, inclusa quella Russa, e sviluppando al contempo la cooperazione con la Santa Sede, si aprono prospettive per un contributo ecclesiastico al possibile dialogo di pace in Ucraina, favorendo così un dialogo più ampio e una maggiore comprensione tra la Chiesa Ortodossa e quella Cattolica.
Inoltre, la Chiesa Ortodossa Serba si aspetta il sostegno della Santa Sede riguardo alla difficile situazione dei serbi in Kosovo e agli attacchi contro i cittadini comuni e i templi ortodossi, poiché si tratta del rispetto dei diritti umani e del grande patrimonio culturale e religioso non solo del cristianesimo ma dell’intera umanità.
Credo che quest’anno, grazie alla visita del Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, in Serbia e alla nomina del cardinale Ladislav Nemet, siano state poste solide basi per progressi nei suddetti ambiti di cooperazione.
A suo giudizio, la fede cristiana, oggi sotto minaccia a causa di assai diversificati processi di secolarizzazione, è ancora in grado di rappresentare un elemento decisivo dell’identità europea?
In questo tempo di conflitti, sofferenze umane e odio insensato, la questione della sopravvivenza dell’umanità, ma anche, cosa altrettanto importante, della natura della persona umana, affronta sfide significative legate alle nuove tecnologie come l’intelligenza artificiale e alle ideologie atee e materialistiche aggressive, che riducono l’uomo a un semplice numero nella catena del consumo e dei piaceri effimeri.
Le Chiese cristiane, che dovrebbero, attraverso un dialogo intenso e continuo, trovare un modello non solo per la loro cooperazione reciproca ma anche per una maggiore unità, devono elaborare un modo per rispondere a queste sfide con una prospettiva evangelica sul senso dell’esistenza e sulla vera missione dell’uomo.
L’uomo, creato a immagine di Dio, al quale è stata affidata la cura di questo pianeta e di tutto ciò che vi è creato, può adempiere a questa missione in un tempo così difficile per la nostra cristianità solo riscoprendo dentro di sé la trascendenza della propria persona.
A dire il vero, non sarà affatto un compito facile per le Chiese cristiane, poiché la propaganda di coloro che vogliono trasformare l’uomo in qualcosa di completamente diverso dal piano divino è potente, onnipresente e aggressiva nella sua intenzione di trasformare questo bellissimo pianeta in uno spazio crudele, dove “l’uomo è lupo per l’uomo”, come diceva Hobbes, e dove tutti combattono contro tutti.
Spetta a noi cristiani testimoniare, con la nostra vita e le nostre azioni, che l’immagine di Dio vive ancora in noi, un’immagine che ama e rispetta ogni persona e la sua dignità, perché siamo tutti creati a sua immagine. Vivendo in questo modo, consapevoli della nostra missione celeste, non siamo diventati né diventeremo lupi che si uccidono e si odiano a vicenda.
Come sappiamo, a Belgrado avrà luogo il prossimo gennaio un incontro tra il governo serbo e quello italiano. Quali prospettive può aprire per i due Paesi?
La Serbia e l’Italia, negli ultimi anni, hanno raggiunto, a mio avviso, il più alto livello di cooperazione politica e comprensione degli ultimi cento anni. Questo è indubbiamente merito della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ha dato un impulso a questa cooperazione, comprendendo l’importanza della Serbia come il più grande Stato regionale per la nuova politica italiana nei Balcani.
Tale iniziativa ha trovato terreno fertile nel governo di Belgrado, soprattutto presso il Presidente Aleksandar Vučić, che vede l’Italia come il suo partner più importante in Europa. La dinamica di questa intensa cooperazione è stata rafforzata, dalla parte serba, dal Presidente Vučić, e dalla parte italiana in particolare dal Ministro Antonio Tajani, attraverso una serie di importanti iniziative, ma anche dai Presidenti delle regioni italiane Attilio Fontana, Luca Zaia e Massimiliano Fedriga.
I due forum economici organizzati a Belgrado e a Trieste dai due governi, insieme al Forum sull’innovazione di Belgrado sostenuto dal Presidente Fontana e dalla Regione Lombardia, hanno dato un forte impulso alla nostra cooperazione economica.
Quest’anno i nostri due Paesi celebrano 145 anni dall’instaurazione delle relazioni diplomatiche e 15 anni dalla firma del trattato di partenariato strategico. Il prossimo anno celebreremo 110 anni dall’eroica alleanza nella Prima Guerra Mondiale.
L’incontro di gennaio tra i due governi a Belgrado, che si tiene per la prima volta dopo quasi un decennio a livello più alto, darà ulteriore slancio al nostro partenariato, alla comprensione politica e alla cooperazione sulla scena internazionale, oltre a rafforzare ulteriormente le già eccellenti relazioni economiche.
Nell’approssimarsi del Santo Natale, quale messaggio desidererebbe lasciare non solo ai nostri lettori, ma anche all’Italia?
Innanzitutto, desidero augurare a tutti i cittadini d’Italia, un Paese che porto particolarmente nel cuore e che amo, delle serene, gioiose e pacifiche festività natalizie e di fine anno. Che possano, riuniti nelle loro famiglie, accogliere la venuta del Salvatore, l’unico che in questi giorni pieni di incertezze e ansie può donarci una vera speranza e una pace interiore.
Auguro alla cara Italia di svilupparsi ancora più fortemente nella stabilità politica e nella comprensione reciproca tra i suoi cittadini, affinché nel nuovo anno tutti possano godere di un maggiore benessere nelle loro vite e realizzare i propri obiettivi personali.
Siate certi che noi serbi, con i quali 110 anni fa avete combattuto coraggiosamente per i diritti delle nostre nazioni allora oppresse, rimaniamo oggi un partner affidabile nella costruzione di un’Europa più forte, sovrana e rinnovata nello spirito cristiano.
Nazareno Galiè
Nella foto: Jovan Palalić, membro del Parlamento serbo e presidente del gruppo parlamentare di amicizia tra Serbia, Italia e Vaticano
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