Beard, il mestiere dei Cesari senza gli stereotipi

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Che significa essere l’uomo più potente della terra? Sarà preferibile l’autocrate che dispone di vita e morte dei suoi sottoposti, il narcisista incurabile che fa spettacolo di sé, il profittatore che sistema parenti e amici, l’eroico soldato, o l’infaticabile burocrate al servizio dello Stato?

Nella storia di Roma imperiale, paradigma del potere in area europea, i tipi sembrano tutti presenti: di qui lo la sintesi concreta e efficace di Mary Beard, L’imperatore di Roma Il potere nel mondo antico (traduz. di Marco Cupellaro, Mondadori «Le scie», pp. 527, euro 30,00).

Al centro non sta dunque la teoria o la geopolitica, ma la prassi di vita e di governo dei Cesari, il «mestiere di imperatore», i problemi dinastici, i momenti sociali, il palazzo, il lavoro quotidiano del Cesare, i suoi svaghi, i viaggi, le immagini pubbliche, la morte. Si va da Augusto ai Severi: l’impero cristiano segnò una fase differente anche quanto al senso e al ruolo.

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Un tema così vasto richiede di cercare tra ‘monumenti’ vari, dagli oggetti agli edifici, dalle tecnicalità di documenti allo sguardo pensoso degli storici. Servono anche gli aneddoti (il libro muove da uno strano banchetto offerto da Eliogabalo), non troppo veritieri ma quasi sempre rivelatori di tendenze o giudizi reali.

È evidente il rigetto di abusati episodi (Caligola e il cavallo senatore, Nerone incendiario e così via), che inducono a banali ‘riabilitazioni’ di figure screditate dalla tradizione antica, riproposte come «riformatori incompresi».

Mary Beard polemizza contro le idee stereotipe. Per questo, si parla di «assassini di Cesare», non di nobili tirannicidi; e Bruto non è un eroe della libertas, ma un «egoista» con «uno spaventoso curriculum di sfruttatore nell’ambito dell’impero». Senza idealismi è evocato il confronto, spesso aspro, tra senatori e imperatori: l’assemblea fu certo assoggettata ai Cesari, saldi al potere con la forza del denaro e delle truppe, ma gli imperatori rischiavano la morte per congiure di varia origine.

Senza miti idealizzanti si ridimensionano gli idoli, persino quelli cari alla letteratura, come Adriano (meno filosofo di quanto piacque a Yourcenar immaginarlo) o Marco Aurelio (se i suoi celebri Pensieri sono «più acquistati che letti»).

Meno mito anche per gli oppositori. «Gli storici, i letterati e gli artisti sono quasi sempre particolarmente attratti da ribelli e dissidenti», che assumono l’aura eroica di chi contrasta la crudeltà del potere, evitando l’acquiescenza dei ‘collaborazionisti’ (abili, dopo la caduta del tiranno, a farsi passare per ‘vittime’ agli occhi del nuovo potere).

Osserva Beard che ci si opponeva al singolo, non all’autocrazia «in quanto tale». Del resto, il giudizio sugli imperatori ‘buoni’ e ‘cattivi’ dipende dalla posizione: erano più a rischio quanti erano vicini all’imperatore, non certo i sudditi delle province, soggetti piuttosto alla capacità (o all’arbitrio) dei governatori.

Valutare la capacità di governo a partire dai fatti è ben diverso che giudicare un re secondo criteri astratti alla Platone.

In questa prospettiva sta anche il prudente ripensamento delle fonti scritte. Le poesie di Stazio in onore di Domiziano, poiché adulatorie, illustrano il rapporto tra intellettuali e potere, e il discorso di ringraziamento di Plinio il Giovane a Traiano, spesso liquidato come adulatorio, fa capire le dinamiche del potere. Il buon principe, il principe civilis, aveva una «checklist standardizzata e ripetitiva» di ciò che ci si aspettava da lui: evitare pose autocratiche, rivolgersi ai soldati come a dei ‘commilitoni’, risultare ai sudditi accessibile, modesto, conscio della maestà del ruolo, ma personalmente sobrio.

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Del suo lavoro era certo parte la guerra: anche in quelle delegate ad altri, il trionfo era a lui attribuito. La retorica della conquista, della ‘massima espansione’ è dei moderni, come si sa, non degli antichi.

Augusto era contrario ad allargare i confini: successive conquiste furono infatti di breve durata o dubbia stabilità. La debolezza del dominio in Britannia è sottolineata pensando allo ‘splendido isolamento’ violato da Claudio, e l’effimero controllo della Mesopotamia richiama i risultati realizzati dalle «potenze occidentali e da chiunque altro si sia immischiato in quella parte del mondo».

Più importante della guerra, in effetti, era la pratica dell’amministrazione. Nello spazio dedicato al ‘Cesare al lavoro’ si ritrovano i temi delineati in The Emperor in the Roman World di Fergus Millar (1977, importante e mai tradotto: in compenso abbiamo gli annales Volusii che raccontano ‘quando eravamo padroni del mondo’).

I Cesari governavano per lettera, intervenendo su sollecitazione della periferia, più raramente in modo attivo, e per farlo si affidavano a una complessa burocrazia, sottodimensionata per quantità e forse per qualità: sicché già Claudio scelse di ricorrere ai liberti, supporto amministrativo indispensabile ma disprezzato dalla élite senatoria.

Si delineava così la ‘corte’, microcosmo complesso composto da molte persone.

Il Cesare aveva a fianco una sposa, cui talvolta toccò un ruolo pubblico di qualche visibilità, giudicata sempre con sospetto, come una inappropriata influenza politica (accusa probabilmente ingiusta toccata, ancora un secolo fa, a Zita di Borbone Parma!).

L’impero non ebbe una first lady, nemmeno con Livia (sarà eccessivo definire «una delle perdite più gravi» quella delle Memorie di Agrippina?). Oltre ai liberti (e ai pretoriani della guardia del corpo) v’erano altri collaboratori più o meno ‘invisibili’, che facavano funzionare la corte. L’esistenza dei privilegiati era uno spettacolo, segnato per loro e per tutti i presenti da regole rigide.

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Ogni snobismo, ogni inconvenienza di galateo, ogni detto, ogni espressione del volto, ogni parola (compresa la pronuncia) era osservata, vagliata, e ricordata. I più esperti sapevano che davanti al Cesare era opportuno atteggiare il volto a inespressività, perché talora era meglio non dar segno di capire ciò che stava succedendo.

Momenti pubblici comunicativi (e quindi politici) erano le udienze, le cerimonie, i sacrifici, e anche i banchetti, allestiti per gustare speciali leccornie, e qualche volta sorbire cibi avvelenati o subire repentine cadute in disgrazia: i palazzi del potere, ieri come oggi, erano anche luoghi della paura. Perciò ogni presente, dal senatore al liberto al Cesare, sapeva simulare o dissimulare emozioni od odi: impenetrabile era Tiberio, mentre Domiziano arrossiva, collerico e imprevedibile.

Momenti privati erano dedicati al gioco, oppure ai ludi dell’anfiteatro (o del più popolare circo): qui l’uccisione delle vittime (umane o animali) era una «metafora del potere di Roma»: anche la caccia rappresentava la carismatica superiorità del Cesare.

Con senso storico (e accurata informazione archeologica) Mary Beard esamina anche i palazzi, evocando in godibili pagine le dimore imperiali e i cantieri della Domus aurea e del Palatino: progetti stratificati nei decenni, e finalmente incompiuti (come i colossali palazzi farnesiani di Piacenza o Parma), ben diversi dal concetto unitario del palazzo-mondo di Adriano a Tivoli.

D’altra parte, l’impero era dove si trovava l’imperatore: alcuni Cesari passarono moltissimi anni di regno lontani dalla ‘capitale’, viaggiando tra le province, impattando con le loro visite sulla vita di cittadine piccole e grandi.

Ma come pensare invece l’aspetto fisico di quelle figure, che giunge mediato da testi e immagini di fedeltà poco verificabile? I ritratti, artistici o artigianali, rappresentavano più un’idea che una persona, e astraevano spesso dal tempo.

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Di qui un’osservazione, desunta dall’esperienza della monarchia inglese, più che da questioni storiografiche: «possiamo fare solo congetture su ciò che provava un imperatore, invecchiando, di fonte all’eterna giovinezza con cui si vedeva raffigurato nelle statue, nei cammei e sulle monete».

Con britannico understatement si affrontano anche la morte e l’apoteosi dell’imperatore: una commistione di cinismo (la parola ricorre più volte), superstizione, religiosità e politica, sempre difficile da sbrogliare, soprattutto per il significato del culto decretato al divus (vedi «Alias-D», 17 ottobre 2021).

Il libro termina con una nota scettica sul potere come perenne menzogna: sembra una delusione storica e personale, che arricchisce la rilettura del tema. Mary Beard induce a pensare all’impero romano con un libro intelligente, documentato, brillante (ed equilibrato, nel ripensare elementi non sempre nuovi).

Alcune scelte editoriali sono dubbie. La bibliografia, accurata, ragionata e aggiornata, è tutta orientata verso l’anglosfera, come nell’edizione originale, suggerendo l’assenza di contributi italiani sui tanti temi trattati (anche la segnalazione di opere straniere tradotte in italiano non è sempre precisa).

La traduzione, capace di rendere il tono brillante dell’autrice, incorre in piccoli errori (Polemo per Polemone, Trapezous per Trapezunte), mostrando scarsa familiarità con l’oggetto. Il lettore pedante pensa che Eliogabalo non volesse mettere il mondo romano «a testa in giù» (Piazzale Loreto?) bensì ‘a soqquadro’, e che il feroce giudizio di Seneca su Claudio, il quale in vita omnia certe concacavit, non si renda con «certo ha imbrattato dappertutto» ma, come felicemente scrive Beard, «he certainly made a shit of everything». La traduzione letterale ha fatto anche cose buone.



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