In “Lessico del neoliberalismo. Le parole del nemico” (Autori vari de La Fionda, Rogas, 2024) sono commentati i termini e le espressioni che la cultura neoliberale ha coniato o di cui si è appropriata, risemantizzandoli, per costruire un senso comune trasversale al tessuto sociale e perciò atto a negare la pensabilità di un’opposizione all’ordine neoliberale o comunque di una trascendenza di quest’ordine.
Questi termini ed espressioni corrispondono a concetti che Herbert Marcuse riterrebbe operativi, cioè la cui descrizione si esaurisce in una serie di operazioni e, tramite queste, in una o più funzioni. I concetti operativi designano quindi la cosa nella sua funzione, realizzando un’identificazione tra cosa e funzione, per cui attributo precipuo della prima è il suo ruolo servente l’ordine esistente. Così, per esempio, l’economia sociale di mercato dovrebbe soddisfare i bisogni sociali e le tecnologie smart dovrebbero risultare sempre e comunque intelligenti e pertanto profittevoli all’uomo.
L’operazionismo – cioè la definizione dei concetti in senso operativo – astrae dalla cosa in sé, dal complesso delle sue potenzialità che, se estrinsecate, la porrebbero in una relazione rinnovata con l’insieme di altre cose che compongono l’ordine esistente: una relazione che potrebbe anche assumere tratti conflittuali. Il concetto operativo rimuove dunque dalla cosa qualsiasi portata negatoria dello status quo o anche solo ostativa alla direzione indicata dal progresso. Così, per esempio, il concetto di concorrenza, se consideriamo l’etimologia del termine, indica l’azione di correre insieme e dunque dovrebbe escludere la competizione senza scrupoli tra gli operatori economici, dando piuttosto adito o a una regolamentazione statale che detti loro i tempi e i modi di realizzazione del bene comune o, addirittura, a una collaborazione orizzontale tra di essi.
Pensare in maniera operativa è un tipico atteggiamento positivista, volto a rimuovere qualsiasi latente contraddizione dall’ordine stabilito, affinché possano attecchire i semi del progresso illimitato. Così il concetto di globalizzazione, inteso come mondializzazione del mercato, non solo ha schiacciato nella pratica quello di internazionalismo, che indica invece la solidarietà delle classi che rivestono una posizione subalterna entro lo stesso mercato, ma, soprattutto, viene visualizzato nel senso comune dominante a prescindere dal suo antagonismo con esso, come se non ne costituisse la negazione. Marcuse spiega bene come la razionalità tecnologica – cioè la razionalità che crede nel completo assoggettamento della natura da parte della tecnica, fino ad addivenire all’amministrazione del tutto – non comprenda, nel suo strumentario logico, l’alternativa parmenidea tra essere e non-essere né la dialettica platonica tra idee e apparenze percepibili: essa sussume soltanto il principio aristotelico di non contraddizione, secondo cui una certa proposizione e la sua contraddizione non possono essere entrambe vere; così, rimosse l’opposizione e la trascendenza, la datità assume uno statuto ontologico e il solo motore della società resta quello evoluzionistico: la fede nel progresso è fede nella stessa struttura sociale che reca in seno la promessa dell’evoluzione del mondo e delle sue cose.
Ecco brevemente illustrate le parole oggetto di approfondito studio nel libro, che, giustapposte l’una all’altra, costituiscono l’impalcatura di tale struttura sociale e la bussola per orientarsi in esso e comprendere le sue dinamiche profonde.
La “governance”, lungi dal costituire sinonimo di un governo rappresentativo e democratico, dipendente in altre parole dalla dialettica parlamentare, è un dispositivo per gestire la cosa pubblica secondo le tecniche manageriali del settore privato; ciò importa, entro l’amministrazione pubblica: l’affidamento delle attività di gestione al management e dunque ad amministratori delegati piuttosto che a organi politici; l’introduzione del principio di concorrenza nei servizi pubblici, tramite gare d’appalto che costringono i fornitori della cosa pubblica a competere fra loro; la previsione di incentivi al raggiungimento di determinati risultati, dunque di meccanismi premiali volti a stimolare l’imprenditorialità; la gestione della spesa pubblica sulla base di criteri che riflettono non i bisogni sociali, ma la qualità del servizio. L’implementazione della governance nel settore pubblico è dovuta ai governi neoliberali di Thatcher e Reagan, che la concepirono come risposta alla crisi fiscale dello Stato, ma già negli anni trenta del novecento i pensatori ordoliberali tedeschi, rimettendo in questione le funzioni dello Stato sull’onda del timore per l’inflazione che aveva destabilizzato la Repubblica di Weimar, immaginavano il principio di concorrenza quale regolatore dell’intera vita sociale; il loro quadro è stato sussunto nell’architettura delle istituzioni europee, che riconoscono un’economia “altamente competitiva” (come recita il Trattato di Lisbona) e il principio di sussidiarietà, che dà il là a una continua ibridazione fra pubblico e privato nel soddisfacimento dei bisogni sociali.
L’“emergenza” è chiamata in causa dai governi neoliberali per suscitare una reazione collettiva condivisa laddove la società non si muove più verso un orizzonte di senso condiviso, sotto cioè il segno di un’escatologia che contiene una promessa per tutti, ma è frammentata in un’addizione di individui ciascuno dei quali persegue autonomamente i propri personali interessi e dunque si trova in competizione con gli altri; lo spettacolo mobilitato entro lo scenario emergenziale riscuote l’approvazione pubblica in società marcatamente individualistiche, dove la sfera civica è poco coltivata ed è dunque agevole strumentalizzare il panico pubblico. L’embrione dell’emergenza era presente già nello Stato liberale: i consociati si assoggettano alla sovranità statale per sfuggire alla reciproca minaccia che essi rappresenterebbero gli uni per gli altri nello stato di natura. La posta in gioco quando si chiama in causa un’emergenza non è soltanto la compressione di diritti fondamentali ma anche, e forse soprattutto, la rilegittimazione e anzi l’ampliamento della legittimazione del potere costituito, la cui configurazione eccezionale risulta indispensabile proprio per scongiurare la minaccia. Tramite questa compressione si riesce, senza dover rendere alcuna spiegazione eccetto la supposta esistenza di un pericolo, a intervenire capillarmente nelle nostre vite, così implementando al massimo grado l’arte di governo della biopolitica.
La “resilienza” è una parola d’ordine della dottrina neoliberale che l’ha mutuata dalle scienze naturali, nel contesto delle quali indica la capacità dei metalli di assorbire i colpi. Applicata all’individuo neoliberale, essa esige da costui il continuo adattamento alle crisi sistemiche e alle oscillazioni del mercato del lavoro. Spronare alla resilienza implica dunque disconoscere le cause politiche delle crisi (segnatamente, delle dinamiche inflative e delle conseguenti politiche di austerità con ondate di disoccupazione), nonché indicare nell’adeguamento di sé alle precarie condizioni socio-economiche e nella predisposizione a cavalcare l’incertezza e l’instabilità la sola strategia praticabile per allontanare lo spettro del fallimento personale; in questo contesto, viene perseguito nel silenzio generale lo smantellamento dello Stato del benessere e della sua triplice funzione “previsione-prevenzione-protezione”.
La “trasparenza” è un principio veicolato tramite la diffusione dei social media e la digitalizzazione dei rapporti tra pubblica amministrazione e cittadini: esso informa sia i rapporti orizzontali che la dialettica tra autorità e libertà. Circa i primi, ha assuefatto le persone a una fruizione accelerata di un gran novero di informazioni: questo flusso comunicativo dovrebbe garantire l’eliminazione di ogni traccia di ombra e segreto dal mondo, in particolare dalla sfera politica, e creare così un essere umano edotto su tutto, ma incapace di ragionare, di porsi questioni sull’eventuale occultamento di trame del potere repulsive al bagliore dell’informazione. Questa incapacità è evidentemente correlata all’impossibilità di concepire un’alternativa all’ordine neoliberale: la società che si offre nella totale trasparenza assorbe l’attenzione e le energie mentali dei consociati, che finiscono per smarrirsi nei vasti campi in cui la stessa società è articolata. Quanto alla dialettica autorità-libertà, quest’ultima, piuttosto che incarnarsi nel “controllo uno-molti dello Stato tradizionale”, viene disarticolata in innumerevoli poli di controllo: ciascuno di noi si espone, si offre nella propria trasparenza allo sguardo di tutti gli altri; questa pubblicizzazione della persona umana costituisce una violenza totalitaria giacché nega “al soggetto ogni possibile soggettivazione, dal momento che gli è stata tolta la possibilità di esercitare il riserbo, la distanza, l’oscurità di significati, l’ambiguità e la discrezione”.
Per “capitale umano” può intendersi l’insieme di attitudini, talenti, qualifiche ed esperienze accumulate da un individuo e determinanti la sua capacità di lavorare e produrre; alla luce di questa definizione, le spese in educazione, formazione e cure mediche possono essere considerate un investimento. L’istruzione diviene così un portfolio di competenza trasversali da rimodulare continuamente per adattarsi alla competizione. Anche le relazioni sociali instaurate o da instaurare vengono valutate in termini di capitalizzabilità, cioè per quanto stanno rendendo o potranno rendere. La persona che incorpora questo complesso di nozioni si costituisce imprenditore di sé, desidera, in altre parole, quanto la sfrutta: la sua cittadinanza acquista i tratti della managerialità, essendo i diritti a essa connessi continuamente esposti alla declassazione.
Il vocabolo “competenze” si collega strettamente al capitale umano, in quanto implica la riduzione dei saperi a fattori di produzione e ben risponde dall’imperativo dell’adattamento. Se le competenze sono credenziali immediatamente spendibili sul mercato del lavoro, allora l’educazione si riduce a servizio reso al mondo economico: è così che la scuola sta rimodulando le offerte formative per trasmettere, anziché un sapere, un saper-agire, cioè l’utilizzo efficace di quanto appreso nella vita lavorativa, e abituare gli studenti a imparare a imparare, cioè ad adeguare il proprio sapere a quanto esige il mercato del lavoro.
Il modello di “imprenditorialità” che si impone in questo contesto valoriale fa strame dei limiti imposti alla libertà di iniziativa economica in Costituzione; effettivamente, la sovrastruttura giuridica che recepisce il compromesso tra capitale e lavoro raggiunto nel “trentennio glorioso” ha incominciato a incrinarsi già sotto la sferza di interventi come la Legge Fornero o il Jobs Act.
La “valutazione” costituisce un dispositivo della governance neoliberale che, mirando a quantificare il valore di cose, persone ed enti, li ordina entro una classificazione gerarchizzata, cioè in una vera e propria classifica che li rende comparabili tra loro. Rendere pubblica quest’ultima (come avviene, per esempio, con riferimento alle valutazioni assegnate dalle agenzie di rating ai titoli del debito pubblico) permette a investitori e consumatori di orientare le proprie scelte e sprona il valutato a competere, cioè a ottenere una misurazione del proprio valore che sia più elevata di quella ottenuta dagli altri concorrenti. In tal modo la valutazione legittima la distribuzione della ricchezza, nonché la premialità del merito, e dunque giustifica le diseguaglianze. Essa è difficilmente attaccabile in quanto si presenta come “espressione di un processo oggettivo” e tende perciò a favorire forme depoliticizzate di decisione, guidate non da valori ideali ma dal valore economico.
Presupposto della valutazione è il “controllo”; la tendenza che si riscontra negli Stati neoliberali è quella di incorporare il controllo nella medesima organizzazione o persona fattane oggetto, affinché costei si impegni in un processo di self-audit e si renda trasparente e disponibile al monitoraggio di sé. Si tratta di indurre gli individui a comportarsi conformemente alle norme entro uno spazio che viene concesso loro dichiaratamente per introdurre un sovrappiù di libertà ma in realtà per assoggettarli a un sovrappiù di controllo (lo spazio digitale, e in particolare i social media, sono emblematici di questo meccanismo di coazione indiretta, di biopolitica governamentale). Entro questo contesto, si parla di Stato valutatore, la cui fonte di legittimazione sta nella potenza di misurazione e quantificazione.
La parola “mercato” viene spesso utilizzata per indicare un soggetto razionale, dotato del potere di sanzionare quelle decisioni di politica economica confliggenti con la propria razionalità (perlopiù protezionistiche o comunque di segno contrario alla liberalizzazione), anche se il mercato non è altro che il risultato della convergenza di volontà individuali (gli animal spirits); tuttavia, l’entificazione operata da stampa e istituzioni finanziarie consente di presentare le sue dinamiche come ineluttabili e di farlo assurgere a un totem. Talvolta esso viene però presentato come un soggetto tutt’altro che razionale: si pensi alle espressioni “effetto gregge” o “panico sul mercato”. In ogni caso, quel che è certo è che il mercato indica il sistema capitalistico in quanto imperniato sulla proprietà privata: questo significato è evidente tutte le volte in cui le privatizzazioni vengono salutate come la restituzione delle società controllate dal settore pubblico al mercato; simile atteggiamento presuppone la fuoriuscita dall’economia mista e l’uso del termine “mercato” anziché “capitalismo” consente di rendere più digeribile l’inversione di rotta.
Il concetto di “concorrenza” affonda le proprie radici nel pensiero economico classico – nato in parallelo alla rivoluzione industriale –, secondo cui il libero esercizio della rivalità concorrenziale è in grado di tradursi nel benessere sociale favorendo la massimizzazione della produzione e dunque della ricchezza collettiva e stabilendo – proprio per via della concorrenza tra gli imprenditori, che si spostano da settori meno remunerativi a settori più profittevoli – a un equilibrio dei prezzi favorevole ai consumatori. Tuttavia, non è mai stato dimostrato secondo una logica razionale e argomenti empirici come la somma e l’interazione degli interessi individuali possa generare un risultato rilevante sul piano del bene comune. Il culmine di questa linea di pensiero è stato concepito dalla teoria economica marginalista, secondo cui un mercato perfettamente concorrenziale (ove ciascun operatore dispone di informazioni complete sulla condotta degli altri e i prodotti scambiati sono omogenei) è in grado di generare una distribuzione “naturale” del reddito: da questo quadro si dileguano la politica e il conflitto distributivo che essa è deputa a comporre.
La locuzione “economia sociale di mercato” fu coniata nella Germania del secondo dopoguerra da Alfred Müller-Armack, persona vicina, oltreché agli USA, al ministro dell’economia dell’allora governo cristianodemocratico di Konrad Adenauer; in questo modello economico sono contemplati interventi statali volti a implementare lo sviluppo della concorrenzialità e pertanto miranti a sanzionare i cartelli tra imprese e i monopoli, che rappresentano indebite concentrazioni di potere economico; anche il sindacato è inteso come un’indebita concentrazione di tale potere e per questo se ne devono spuntare le armi. Sia nel Trattato per la riunificazione di Germania Ovest e Germania Est che nel Trattato sull’Unione Europea l’economia sociale di mercato figura fra i principi fondamentali e questa inclusione induce molti commentatori a erroneamente ritenere che si stia mediando tra istanze neoliberali e istanze sociali.
Il “debito” è un’altra parola chiave dell’impianto economico neoliberale perché consente di moralizzare il soggetto debitore, in particolare lo Stato, colpevolizzandolo se non saprà ripagare i propri creditori. Accoppiata al debito, la stabilità indica il grado di affidabilità (anche qui torna un accento moralistico) di un’economia nazionale, misurata dalla sua capacità di tenere i conti in ordine e di garantire la solvibilità dei debiti esteri. Questa endiadi produce quali imperativi politiche deflattive, privatizzazioni e concorrenzialità, e nell’ordinamento politico dell’Unione Europea si è tradotta nel Patto di stabilità, in base al quale gli Stati membri sono tenuti ad adeguare tanto il bilancio quanto il loro rispettivo totale indebitamento a determinati parametri percentuali, commisurati al PIL. Sappiamo bene quel che segue all’inottemperanza a questi ultimi: nel 2011 in Italia venne decretata la fine del governo Berlusconi, giudicato incapace di adottare le riforme strutturali necessarie a ridurre il debito, mentre nel 2015 la Grecia fu sottoposta a un piano di salvataggio “lacrime e sangue”, che peraltro aveva incontrato l’opposizione del popolo, accusato di “aver vissuto al di sopra delle proprie possibilità”.
Altro concetto inerente alla struttura economica è quello di “transizione ecologica”. L’etimo del termine – che viene dal latino transire – implica il passaggio da uno stato a un altro, dunque un processo trasformativo reale, un cambio del paradigma economico; una transizione ecologica sincera esigerebbe quindi un arretramento della crescita economica onde consentire la cura dell’ambente e ridurre lo spazio antropizzato che l’umanità occupa nel mondo. Quella che si sta affermando è però una transizione ecologica dall’alto, ove la crescita economica resta al centro e la protezione dell’ambiente naturale viene inserita nei calcoli costi/benefici delle imprese, il che importa la finanziarizzazione della sostenibilità, cioè la permeabilità della tutela dell’ecosistema ai meccanismi di debito e compravendita tipici del mercato (dalle obbligazioni ESG fino allo scambio dei permessi di inquinamento).
La parola “smart” si riferisce ai dispositivi digitali e a quelli animati dall’intelligenza artificiale. All’intelligenza degli ultimi ritrovati della tecnologia fa da contraltare un consumismo ottuso (oltreché insostenibile per l’ambiente), scatenato da un ciclo rapido e perpetuo di sostituzioni e aggiornamenti, e l’erosione della nostra autonomia individuale. Inoltre, l’affidamento agli algoritmi di decisioni su questioni come l’accesso al credito o la selezione dei candidati a un posto di lavoro non solo implica la nostra deresponsabilizzazione ma può portare anche a perpetuare e amplificare le disuguaglianze, considerato che l’addestramento degli algoritmi avviene su dati concreti e quindi agevola la proiezione del passato sul futuro.
La “digitalizzazione”, dietro la promessa della creazione di uno spazio alla portata di tutti per l’accesso alle informazioni e, di conseguenza, l’esercizio della partecipazione democratica, ha creato un oligopolio di aziende della tecnologia che traggono profitti dall’estrazione ed elaborazione algoritmica dei nostri dati personali.
L’aggettivo “globale” qualifica invece quel processo di omogeneizzazione delle differenze politiche, culturali e di costume tra i popoli condotto sotto il segno della duplice teologia economica – espansione mondiale del mercato – e giuridica – la strumentalizzazione dei diritti umani per esportare democrazia, cioè per giustificare guerre mirate al controllo delle materie prime o all’apertura dei mercati terzomondisti –; a condurre simile iniziativa è l’Occidente, con gli Stati Uniti a reggere il gonfalone, cosicché si può concludere che la globalizzazione corrisponde a un ordine geopolitico unipolare, laddove il multipolarismo che sta di recente prorompendo ne segna la crisi.
La parola “confine”, nel suo autentico campo semantico, costituisce una garanzia di stabilità, in quanto presuppone che insieme (“con”) si ponga una fine (“finis”) a una traiettoria espansiva foriera di ostilità. Studi sociologici di ultima generazione, noti come border studies, hanno posto le fondamenta per una assimilazione del confine alla frontiera, significante che allude al movimento, alla scoperta e al progresso, ma anche alla colonizzazione e allo sfruttamento: il confine è stato così reinterpretato come frontiera mobile. I confini nazionali, stabili e netti, vengono di conseguenza tacciati di arbitraria artificiosità, se non di configurarsi quale strumento di discriminazione: questa impostazione disconosce la storia e la tradizione politica dei popoli, senza risparmiare nemmeno l’autodeterminazione nazionale dei movimenti anticoloniali, e serve l’universalismo della ragione neoliberale.
Similare distorsione ha subito la parola “woke”, che all’inizio del ventesimo secolo costituiva una raccomandazione, interna alla comunità afroamericana, a stare in guardia (woke è una versione contratta di awake, sveglio) dalle ingiustizie sociali e razziali. Il termine è stato movimentato entro lo spazio digitale fino a usurarsi e limitare il proprio ambito semantico alle sole ingiustizie culturali e identitarie; a quel punto, la ragione neoliberale – e i suoi agenti, sotto forma di aziende e imprenditori digitali – hanno scimmiottato le posture woke onde aggiudicarsi consensi e disinnescare il potenziale rivoluzionario delle istanze originariamente sottostanti a questo movimento culturale.
Chi leggerà “Lessico del neoliberalismo. Le parole del nemico” potrà legare tutte queste parole con un filo rosso e rendersi conto che questo delimita il perimetro di un ordine sociale tutt’altro che accogliente, essendo inclusivo solo nella misura in cui un’ulteriore inclusione corrisponda a specifici interessi di parte.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link