Declino economico e ritardo culturale, due facce della stessa Italia nel Rapporto Censis 2024

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Da tempo sapevamo che la nostra crescente “ignoranza o incultura” si accompagnava alla nostra bassa produttività, fonti della nostra fatica a innovare in mondi digitali ed eco-sostenibili, ma ora il Censis lo conferma. Si rileva bassa scolarizzazione, alti abbandoni, basso livello di laureati, bassi livelli di specializzazione del lavoro e dunque profili scarsi e bassi salari che accompagnano bassissimi tassi di attività femminili e giovanili.

Un Paese a bassa scolarizzazione e produttività

Una tesi che porta alla seguente conclusione: abbiamo vissuto di rendita arretrando negli ultimi 30 anni mentre il mondo è volato nelle tecnologie, nell’innovazione, nella qualificazione del lavoro e nei tassi di crescita della produttività, crescendo con giovani e donne. Siamo la seconda manifattura d’Europa ma ultimi per produttività, per laureati e per scolarizzazione media, tra gli ultimi nel tasso di occupazione di giovani e donne. Si lancia così un “allarme educativo e demografico” con un aumento dei contratti precari.

Siamo “ignoranti e culturalmente impreparati” – dice il Censis – che conferma quanto rilevato nei test Invalsi negli ultimi anni: ignoranti in storia e letteratura e debolissimi nelle materie STEM di cui l’industria ha un bisogno primario. Questo ci indebolisce in termini di efficienza, produttività e competitività. Non stiamo solo “galleggiando” ma arretriamo nei potenziali imprenditoriali, manageriali, di innovazione e qualità del lavoro, come nei modelli organizzativi e di business.

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Ma già Tullio De Mauro sollevava questo problema oltre 25 anni fa parlando di “analfabetismo funzionale”, e purtroppo siamo ancora qui. Perché la lingua (alla base anche delle materie tecno-scientifiche) – per De Mauro – “non era solo uno strumento per dare ordine al pensiero e comprendere il mondo, ma anche per avere completamente accesso ai propri diritti, alla cittadinanza, in definitiva un mezzo per creare una società più giusta” e dunque alla base della coesione sociale come potente fattore di crescita e dunque “più competitiva”.

L’allarme educativo e demografico: giovani e donne ai margini

Non siamo più la prima palestra imprenditoriale d’Europa e così nelle start-up innovative, nella quale rincorriamo e ci indeboliamo nelle capacità competitive dei nostri sistemi di impresa che faticano a trovare le risorse tecniche e manageriali per competere a livello globale. Scendiamo nei ranking internazionali con la produzione industriale che cala da 21 mesi (con una contrazione del 4% a settembre 2024 sull’anno precedente). Con la formidabile contraddizione tra aumento occupazionale e riduzione della produzione e del reddito nell’aggregato, ci troviamo tra declino e deindustrializzazione, spiegato in buona parte dal gap culturale e formativo e dunque dalla caduta di investimenti tecnico-innovativi (pubblici e privati).

Una società che cambia con il 65% delle famiglie costituite da “single”, frantumandosi dunque il collante fondamentale della solidarietà della società italiana degli ultimi 150 anni che ne ha fatto la forza industriale primaria. Ciò spinge verso individualismi, egoismi e “grandi solitudini”, oltre che verso invecchiamento e denatalità (48 anni è l’età media). Il 57% degli italiani si sente minacciato dagli stili di vita dei migranti ma l’industria e i servizi sociali ne hanno bisogno. Il 55% delle famiglie dichiara risparmi in diminuzione nel biennio.

Gap culturale e deindustrializzazione: le sfide del futuro

Il tasso di occupazione aumenta ma rimane per il 9% sotto la media europea e siamo ultimi con una produzione manifatturiera che nell’ultimo biennio è scesa del 3,4%, a fronte di un aumento del turismo del 19% nell’ultimo decennio. Se ci stiamo deindustrializzando, dovremmo agire presto per contrastare tale processo.

Se poi – secondo il Censis – l’80% della popolazione “non crede nella democrazia” si potrebbe dedurre che si sta formando una “riserva” enorme per un partito reazionario di massa e disposto a credere all’”uomo (o donna) della provvidenza”, ricordando Weimar. Ecco perché l’Italia non cresce (a partire dall’incrocio vizioso tra fattori culturali, economici e sociali) ma “galleggia” con una riduzione del reddito lordo pro-capite reale del 7% negli ultimi 20 anni e con un blocco dell’ascensione sociale. Tanto che 120 mila giovani se ne vanno ogni anno alla ricerca di un futuro, regalandoli – dopo averli formati – ai nostri competitor diretti come Regno Unito, Francia, Nord Europa o Spagna.

Dunque, l’Italia sta peggio anche per un sostanziale ritardo culturale, che fonda nuovi gap tecnologici e innovativi (digitalizzazione) e che vede aumentare la povertà (assoluta e relativa) – come dice il Rapporto Caritas 2024. Il problema affonda non solo nell’ultimo biennio, ma almeno in un decennio, con persistenti diseguaglianze territoriali Nord-Sud.

Nella manovra di bilancio 2025, la conferma della riduzione del cuneo fiscale (già introdotta da Draghi) e l’abbattimento dell’IRES “premiale” basteranno? Eppure, il numero dei miliardari aumenta e i primi sei detengono l’8% del PIL, mentre le diseguaglianze si aggravano anche in ambito educativo, sanitario e ambientale.

Aumenta l’occupazione povera (poor workers): si riducono le ore lavorate, deprimendo la crescita della produttività e dei salari, mentre l’inflazione erode il potere d’acquisto. Crescono però i dividendi degli azionisti di Stellantis e dei grandi gruppi bancari, nonostante il crollo delle vendite, specialmente nel settore automotive, cruciale per la nuova Commissione di Ursula von der Leyen.

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Noi dunque non andiamo “bene” non perché i nostri competitor vanno male, ma perché stiamo fermando la nostra crescita. Dopo il 2026, con la fine del PNRR e il ritorno del Patto di Stabilità, rischiamo di rimanere indietro in un’Europa fragile, con la democrazia sotto attacco e un Trump pronto a lanciare dazi “contro tutti”.



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