Bollettino ADAPT 16 dicembre 2024, n. 45
La XIV edizione del Convegno internazionale ADAPT, tenutasi a Bergamo dal 4 al 6 dicembre, e intitolata “What Do Workers Want, Today? An Interdisciplinary Reflection on Representation, Industrial Relations and Labour Law”, ha ospitato diverse presentazioni incentrate sulla partecipazione dei lavoratori. Benché diversi contributi abbiano avuto ad oggetto il canale tradizionale, ossia rappresentativo, di partecipazione dei lavoratori, non sono mancate incursioni anche negli ambiti, storicamente meno esplorati, di coinvolgimento e influenza diretta dei lavoratori, senza cioè la mediazione della rappresentanza. Lo si è fatto parlando di gruppi di lavoro e miglioramento continuo, schemi per la rilevazione dei suggerimenti dei lavoratori, opportunità per il singolo lavoratore di segnalazione di illeciti da parte dell’azienda, autonomia individuale o di team nella gestione del contenuto e dell’organizzazione del proprio lavoro, diritti di informazione verso il lavoratore relativamente all’impiego di sistemi decisionali e di monitoraggio automatizzati, coinvolgimento dei dipendenti nei processi di due diligence.
Ma l’aspetto più interessante emerso dal Convegno non è stato tanto l’inclusione di questi temi nel programma dei tre giorni, quanto l’emersione, da diverse presentazioni, del bisogno urgente di abbracciare i sempre maggiori canali di coinvolgimento dei lavoratori in una prospettiva teorica e pratica di relazioni industriali. In altre parole, non si tratta semplicemente di tenere conto di queste nuove e meno “mediate” modalità di partecipazione dei lavoratori negli studi sulle relazioni industriali e la democrazia nei luoghi di lavoro (che troppo spesso hanno tenuto separate le vecchie e nuove forme di espressione). Occorre invece capire, da un lato, se le forme tradizionali di rappresentanza sono rese desuete dall’ascesa dei moderni canali di influenza e dall’altro, se così non fosse, approfondire come il vecchio e il nuovo possono integrarsi a beneficio di tutti e tre gli obiettivi delle relazioni industriali che John W. Budd (2004) ha sapientemente sintetizzato: efficiency, equity e voice. In questa ultima direzione, si è mosso l’intervento di Sara Lafuente (ricercatrice presso l’ETUI) in occasione della seconda plenaria del Convegno, che ha auspicato l’affermazione di una rinnovata agenda politica dei sindacati e della rappresentanza del lavoro che tenga conto e includa anche nuovi attori (i singoli lavoratori e gli altri portatori d’interesse) e nuovi temi (come l’innovazione organizzativa, la responsabilità sociale d’impresa, le nuove tecnologie applicate al lavoro, ecc.) e livelli (da quello multinazionale fino al singolo luogo di lavoro o reparto, senza dimenticare la comunità e il territorio) di operatività.
Una prima applicazione concreta di questa strategia, che testimonia la possibile sinergia tra autonomia individuale e autonomia collettiva, è emersa dalla presentazione di Heejung Chung (professoressa presso il King’s College di Londra) che nell’ultima giornata di Convegno, si è concentrata sul cosiddetto “lavoro flessibile” ovvero l’autonomia data al lavoratore di scegliere quando e dove prestare il proprio lavoro. La professoressa ha denunciato il rischio che “when workers gain more control over when and where they work – e.g. flexitime, working time autonomy, teleworking/homeworking – they end up working harder and longer”, per via di una serie di fattori tra cui l’idea di dover lavorare di più per compensare la maggiore flessibilità e per superare lo stigma, ancora ampiamente diffuso nei contesti lavorativi, che l’assenza di orari e postazioni fissi nuoccia alla produttività. Questi meccanismi, soprattutto nelle donne e in chi si occupa della cura dei famigliari, si aggiungono alla pressione di dover svolgere, data la possibilità di lavorare da casa, anche maggiori attività domestiche. Chung non ha però dimenticato di sottolineare che l’inquadramento del lavoro flessibile in una prospettiva più ampia di rinnovamento organizzativo, tanto più nell’ambito di una regolazione collettiva, può ridurre i problemi ad esso correlati.
Nello specifico, il lavoro flessibile non deve essere necessariamente concepito come il traguardo di chi ambisce alla conciliazione vita-lavoro, ma piuttosto come uno strumento intorno al quale poter ripensare l’intera organizzazione aziendale in un’ottica di maggiore sostenibilità. Coerentemente, occorre associare all’autonomia individuale nell’organizzazione del proprio lavoro anche la promozione di una gestione delle risorse umane che valuti il raggiungimento degli obiettivi anziché la quantità di ore di lavoro; la valorizzazione dei momenti in presenza, evitando riunioni inutili e calendarizzando incontri funzionali alla circolazione di idee e alla crescita reciproca; la concentrazione, al di fuori degli uffici, di attività di studio e approfondimento individuale che non richiedono la relazione continua con i colleghi; la predisposizione di presidi e strumenti relazionali a contrasto dei possibili rischi di isolamento; la promozione di un buon bilanciamento nell’impiego del lavoro flessibile tra madri lavoratrici e padri lavoratori; il rispetto delle fasce di disconnessione a tutela delle benessere psicosociale dei lavoratori. Un approccio al lavoro flessibile che mi pare confermi dunque, in primo luogo, l’assenza di una incompatibilità strutturale tra autonomia individuale nella gestione del proprio lavoro e rappresentanza collettiva, e in secondo luogo, il potenziale contributo di quest’ultima a che il lavoro flessibile non realizzi una eterogenesi dei propri fini. Per fare questo, però, in linea con la direzione tracciata da Lafuente, occorre che il sindacato non si faccia semplice promotore dell’istanza individuale alla flessibilità, quasi che il lavoro flessibile fosse il fine ultimo della sua azione, ma sappia non perdere di vista i ben più ampi e ambiziosi obiettivi delle relazioni industriali che ho prima richiamato (efficiency, equity, voice), così da provare a costruire una flessibilità che sia a servizio di un corretto bilanciamento tra questi.
Personalmente, ritengo che questo punto di vista possa costituire una valida bussola anche per i sindacati nel nostro Paese, spesso spinti ad interrogarsi sulla opportunità o meno di un loro intervento in tanti ambiti che sempre più sono oggetto di relazioni dirette tra impresa e lavoratori (il miglioramento continuo, lo sviluppo di carriera, l’orario di lavoro: tutte aree intercettate anche dal progetto di ricerca europeo, BroadVoice, i cui risultati preliminari sono stati anch’essi presentati in occasione del Convegno).
A lungo mi sono chiesta se ci fossero campi specifici nei quali l’intervento sindacale fosse fondamentale e al contrario temi su cui la rappresentanza potesse astenersi. Ma le presentazioni che si sono susseguite nei tre giorni di Convegno hanno mostrato che il discrimine non starebbe nell’oggetto o area di intervento quanto piuttosto nei fini e nelle modalità con cui si perseguono. Perché se il sindacato diventa esclusivamente il canale di affermazione di specifiche istanze individuali (relative, ad esempio, alla formazione, alla conciliazione, alla determinazione del proprio orario di lavoro, ecc.), e i lavoratori vengono già autorizzati ad affermare direttamente o nel rapporto con i propri responsabili queste prerogative, è ragionevole dubitare della rilevanza del sindacato stesso in qualunque area tematica. Al contrario, se la rappresentanza è capace di spostare l’attenzione dagli interessi individuali ai valori sociali di uguaglianza, emancipazione, giustizia, sostenibilità, allora i diritti individuali scendono al rango di meri strumenti e la loro validità sarebbe vagliata e costruita (attraverso regole e procedure collettive) sulla base di questi più ampi e lungimiranti criteri. Allora anche se tutti i lavoratori potessero autodeterminarsi nel proprio lavoro, non verrebbe meno il ruolo del sindacato, fautore e garante che i processi di autodeterminazione del singolo portino benefici sociali ed economici per il singolo e per la collettività. Un’ipotesi questa, di integrazione tra partecipazione diretta e rappresentativa che rifugge qualsiasi approvazione aprioristica, e che al contrario passa dal rafforzamento delle funzioni tradizionali della rappresentanza anche in relazione alla partecipazione diretta dei lavoratori.
Solo così il sindacato potrebbe evitare il pericolo concreto di essere declassato a mera alternativa delle forme dirette di espressione, e quindi di soccombere alla loro inesorabile ascesa; così come la prospettiva non meno infelice di essere piegato a spalla operativa della direzione d’impresa, in funzione del raggiungimento degli obiettivi che la sola impresa attribuisce alla partecipazione.
Ricercatrice ADAPT Senior fellow
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