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L’assessora Monni al deposito Eni di Calenzano, nei momenti immediatamente successivi all’esplosione
La Procura di Prato ha avviato indagini sulle cause che la mattina del 9 dicembre hanno portato all’incidente nel deposito Eni: l’unica certezza al momento è che l’esplosione ha provocato 5 morti e 29 feriti.
Una tragedia che è tornata a portare il tema della (in)sicurezza di questi impianti fossili al centro del dibattito pubblico, come anche l’urgenza di accelerare la transizione ecologica verso le energie rinnovabili.
Ne abbiamo parlato con Monia Monni, assessora all’Ambiente della Regione Toscana.
Intervista
Dopo l’incidente all’Eni di Calenzano, qual è la situazione sotto il profilo dell’inquinamento ambientale?
«Subito dopo l’esplosione la prefettura ha giustamente attivato il sistema broadcast di allerta nazionale It-Alert (per la prima volta questo strumento in via di sperimentazione è stato utilizzato in un caso reale, ndr), perché stiamo parlando di un grande deposito carburanti e potenzialmente il pericolo d’inquinamento poteva essere importante.
Fortunatamente questo rischio è rimasto sotto controllo, dato in base a quanto emerso dal monitoraggio Arpat non si sono verificati rischi per la salute umana a causa d’inquinamento».
Né a livello d’inquinamento atmosferico né per quanto riguarda le acque?
«La colonna di fumo che si è innalzata in aria dopo l’esplosione era molto calda, è dunque salita in modo rapido e ha trovato forti correnti che l’hanno dispersa rapidamente e su un’area estesa, quindi non ci sono stati neanche problemi di concentrazioni d’inquinanti a livello del suolo.
Per quanto riguarda le acque è stato invece necessario un piccolo intervento, perché in un fosso che scorre accanto all’impianto – e regolato da una piccola idrovora privata – si erano concentrate delle schiume usate dai Vigili del fuoco per lo spegnimento delle fiamme, acque di dilavamento del piazzale: le schiume usate per spegnere gli incendi da carburante sono molto dense e oleose, ma proprio per questo anche facili da raccogliere. Almeno sotto il profilo dell’inquinamento siamo tranquilli».
Ci s’interroga però se è sicuro mantenere impianti simili all’interno di una città: il presidente Mazzeo chiede che future costruzioni avvengano in «luoghi isolati»; il sindaco Carovani che venga spostato altrove anche l’attuale deposito di Calenzano; Legambiente Toscana che si bonifichi l’area e sia dia gambe al Parco agroecologico della Piana. Secondo lei qual è la strada giusta?
«È una valutazione difficile, perché in primo luogo c’è da sottolineare quanto già scritto da Erasmo D’Angelis sulle colonne di greenreport, ovvero che stiamo parlando di un impianto risalente al 1956: allora l’area era sostanzialmente deserta, prevalentemente paludosa.
Poi attorno si è sviluppata una città con insediamenti importanti, produttivi ma anche commerciali – non distante ci sono I Gigli –, quindi una grande concentrazione di persone.
È chiaro che gestire il rischio in un’area così densamente urbanizzata è particolarmente difficile però bisogna anche capire quali sono le condizioni che consentirebbero di provare a spostare un impianto simile, che ha bisogno di infrastrutture per essere alimentato: basti osservare che è collegato a Livorno da due oleodotti da quasi 90 chilometri.
Non dobbiamo dunque lasciarci prendere troppo dall’emotività.
Non è facile dire “un impianto che ancora serve lo sposto da un’altra parte”, perché da un’altra parte ci saranno altre persone che non vorranno essere esposte a un rischio per loro nuovo; in ogni caso operazioni simili presentano costi importanti e vanno fatte in accordo col Governo e la stessa Eni, perché non abbiamo elementi coercitivi.
Se questa è la necessità va ragionata bene: bisogna creare le condizioni, creare un tavolo e confrontarci per capire se sono realizzabili. Dobbiamo provarci, questo è certo».
Rischi simili peraltro non riguardano certo la sola Calenzano.
«In Toscana sono 56 gli impianti a rischio d’incidente rilevante.
Con le consapevolezze di oggi sarebbe inimmaginabile pensare di sviluppare industrie con rischi così elevati in aree altamente urbanizzate, ma il nostro è un Paese che matura con molta lentezza le proprie convinzioni: abbiamo dovuto aspettare l’esplosione nel 1976 all’Icmesa di Seveso per capire quali erano i pericoli di un certo tipo d’impianti, ma sono poi serviti diversi anni per arrivare a una direttiva europea in merito, e sei altri ancora perché l’Italia la recepisse.
Aprendo un parallelismo, in questi giorni facevo l’esempio dei fossi tombati.
Oggi ci siamo accorti che sono pericolosissimi, che esplodono in caso di alluvione e non hanno più sezioni adeguate.
All’epoca l’imperativo era quello della crescita a tutti i costi, le consapevolezze sui livelli di sicurezza purtroppo sono arrivate molto tempo dopo».
Di certo per dire addio agli impianti fossili occorre fare spazio a quelli rinnovabili. La Giunta toscana ha appena presentato la sua proposta di legge sulle aree idonee: quali sono i capisaldi?
«L’obiettivo è regolare lo sviluppo delle rinnovabili, e la novità della legge toscana è affidare un ruolo ai Comuni in quest’operazione.
Abbiamo fatto una legge in due tempi, ovvero identificando noi le aree idonee ma consentendo ai Comuni di intervenire dopo l’approvazione – quindi nel momento in cui le aree idonee regionali saranno già efficaci – per operare spostamenti, in modo da renderle il più possibile compatibili con le scelte di sviluppo di quel territorio.
Abbiamo inoltre scelto di individuare aree idonee sostanzialmente per il solo fotovoltaico e agrivoltaico.
Noi abbiamo anche la geotermia, per la quale abbiamo però già individuato le aree non idonee ed è una partita che abbiamo ritenuto giusto non riaprire nuovamente.
L’eolico invece lo consideriamo un pezzo fondamentale del mix energetico che ci consentirà di decarbonizzare, ma abbiamo deciso di non identificare le aree idonee per questi impianti.
Non dobbiamo infatti dimenticare che tali aree non sono quelle in cui è possibile fare installazioni, ma quelle dove si possono fare più velocemente: per l’eolico abbiamo ritenuto non fosse possibile questa corsia rapida perché c’è bisogno di valutazioni sito-specifiche molto puntuali, dalla compatibilità con l’avifauna alle condizioni geologiche, non da ultimo passando per l’attivazione di processi partecipativi perché è fondamentale coinvolgere le comunità, che altrimenti vivono in modo ostile l’atterraggio di questi impianti sul proprio territorio».
La legge regionale prevede comunque obiettivi vincolanti per i singoli Comuni?
«È una legge che ci consentirà di raggiungere i nostri obiettivi e di farlo il più possibile in un dialogo con i Comuni e con le comunità: la sua natura è proprio quella di richiamare tutti alla responsabilità, perché ciascuno faccia la propria parte nella transizione ecologica e che questa non vada solo a carico di quei territori che – per una serie di condizioni – il mercato ritiene più idonei a tale funzione.
Dunque sì, ogni Comune ha il suo obiettivo da raggiungere: abbiamo preso le aree idonee regionali e le abbiamo ripartite su ogni singolo Comune applicando dei correttivi».
Per raggiungere almeno +4,2 GW al 2030 in Toscana come stabilito dal decreto nazionale in materia, sono previste le aree di accelerazione necessarie per attuare la direttiva Ue Red III?
«Quello dei 4,2 GW è l’obiettivo minimo, mentre il nostro è quello della decarbonizzazione.
Alla fine il target che emergerà dalle aree idonee identificate dalla Regione è ben più alto, ma per il semplice motivo che noi andiamo a identificare le aree potenzialmente idonee; non sappiamo dove si concentreranno le richieste d’autorizzazione, quindi siamo stati più larghi per poter capire poi come s’incroceranno con le nostre indicazioni e dunque cosa effettivamente rimarrà a terra.
Le aree idonee di fatto sono già aree di accelerazione, come già accennato, ma nella legge abbiamo individuato anche delle aree “super idonee” – che i Comuni non potranno spostare – ovvero fortemente privilegiate e senza particolari conflittualità come fasce di rispetto, tetti, impianti agrivoltaici funzionali a sostenere il reddito delle aziende agricoli.
Individuiamo infine le aree ordinarie, cioè quelle in cui è possibile installare impianti rinnovabili; non si tratta di aree non idonee, ma di aree dove il procedimento non prevede percorsi accelerati.
Per il fotovoltaico ma in questo caso anche per l’eolico. In totale il 30% del territorio toscano si compone di aree tra ordinarie e idonee».
Quali sono adesso iter e tempistiche per arrivare all’approvazione definitiva della proposta di legge?
«Insieme al Consiglio regionale e in particolare con le Commissioni II e IV abbiamo già svolto una serie di audizioni, oltre a quelle che abbiamo fatto anch’io e il tavolo di concertazione generale, coinvolgendo dall’Ance all’Upi, dalle associazioni agricole a quelle ambientaliste – due volte, sentendole tutte, quelle favorevoli come le contrarie.
È dunque una legge che abbiamo provato subito a condividere molto.
Adesso l’intenzione è quella di andare in Aula a gennaio, considerando però che prima è necessaria una nuova serie di passaggi con le Amministrazioni comunali.
Sappiamo però che il 5 febbraio sul tema delle aree idonee si esprimerà il Tar Lazio, e non si tratta di un elemento banale perché a quel punto potrebbe risultare completamente inutile fare norme regionali.
Nel merito è curiosa la lettera inviata dal ministro Pichetto Fratin con la quale rassicura le regioni preoccupate per questa sentenza, affermando che il Governo non applicherà poteri sostitutivi in caso di ritardi nell’approvazione delle aree idonee: se il legislatore pensa che la sentenza possa interferire con le leggi regionali dovrebbe prorogare i termini, non inviare lettere di rassicurazione.
Non si capisce neanche quali siano questi poteri sostitutivi da azionare, in quanto se non facciamo leggi regionali vale il decreto nazionale già in vigore».
L’affastellarsi di norme e dichiarazioni a livello nazionale sembra continuare ad alimentare caos sullo sviluppo delle rinnovabili, anziché semplificare.
«Il Governo gioca molto su fraintendimenti e ambiguità.
Ci troviamo a elaborare norme regionale per provare a programmare questo sviluppo in maniera partecipata e che corrisponda a criteri di pianificazione, mentre a Roma hanno impiegato due anni per approvare il decreto nazionale e adesso ci troviamo con situazioni come quella di Manciano, che porto sempre come esempio: su un territorio di 2.500 ettari insistono progetti per 2.000 ettari.
Mi pare eccessivo.
È vero che il paesaggio va trasformato e che questa trasformazione serve per la sua conservazione – altrimenti ci penserà la crisi climatica a distruggerlo – ma va fatta in modo equilibrato e programmato.
Tanto che noi abbiamo accompagnato la legge regionale con una decisione di Giunta molto forte: laddove il ministero autorizzi impianti con il parere negativo della Regione, noi faremo ricorso su tutti.
È inaccettabile mettere a rischio il processo di transizione ecologica suscitando sentimenti ostili sui territori, quando la conversione alle fonti rinnovabili dovrebbe essere percepita come quello che è: una grande opportunità per tutte e tutti, non un elemento di conflitto sociale».
Anche perché l’alternativa è restare per sempre dipendenti da impianti fossili, come l’Eni di Calenzano.
«Esatto, è proprio così».
(Intervista di Luca Aterini, pubblicato con questo titolo il 13 dicembre 2024 sul sito online “greenreport.it”)
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